A poco più di un anno dall’entrata in vigore del “codice rosso“, in Parlamento arrivano due disegni di legge sul tema della violenza maschile contro le donne e che hanno ad oggetto, in particolare, i centri di “recupero” per uomini violenti. Uno dei due disegni di legge è stato presentato dalla senatrice di Italia Viva Donatella Conzatti, segretaria della commissione d’inchiesta sul femminicidio (l’altro è a firma di Alessandra Maiorino, senatrice M5S). Conzatti, che faceva parte del gruppo di Forza Italia prima di unirsi al partito fondato da Matteo Renzi, parlerà della questione in occasione della conferenza organizzata al Senato venerdì 27 novembre e intitolata “La prevenzione della violenza sulle donne attraverso l’intervento sugli uomini autori di violenza domestica”.
Senatrice, perché questo disegno di legge?
Credo che questi interventi siano indispensabili, perché abbiamo ogni giorno dei dati che sembrano un bollettino di guerra. In Italia ogni due giorni viene uccisa una donna, e viene uccisa in quanto donna. I dati Istat del 2019 ci dicono che 7 milioni di donne in Italia, il 31 per cento, ha subito una qualche forma di violenza nel corso della sua vita. Oltre l’80 per cento dei casi di violenza avviene in ambito relazionale o familiare. Per questo i centri per gli uomini maltrattanti li collochiamo specificatamente nell’ambito della violenza domestica, quando tra le persone c’è o c’è stata una relazione affettiva o parentale.
Ma perché partire dagli uomini?
Questo progetto di legge è un po’ una rivoluzione copernicana nell’approccio. Ma cominciare a mettere il focus sulla necessità di percorsi di consapevolezza per gli uomini è fondamentale. Molto spesso negano, non se ne accorgono, minimizzano. Questo approccio deve cambiare: non possono più guardare al fenomeno da fuori, come se il tema non li riguardasse. Dev’esserci una presa in carico del problema, devono capire che dipende da loro. Dipende anche dagli uomini che non sono violenti (e che sono ovviamente la maggior parte) innescare questo senso di responsabilità che riguardi tutti.
È passato solo poco più di un anno dal codice rosso, è già tempo di una nuova legge sul tema?
Stiamo lavorando per completare i tasselli previsti dalla legge italiana di conversione della convenzione di Istanbul. La convenzione, firmata nel 2011, si basa su un approccio integrato, complesso e su più livelli. Lavora su quelle che vengono chiamate le quattro “P”: prevenzione, protezione, punizione e politiche. Il codice rosso cade nell’ambito delle punizioni, mentre il nostro disegno di legge si colloca nell’ambito delle reti di protezione, che comprende i centri anti-violenza, le case rifugio, i centri per l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro.
Però stavolta parliamo di centri per uomini autori di violenza.
Sì, la loro esistenza è prevista all’articolo 16 della legge 77 del 2013 che ha convertito la convenzione di Istanbul. In questi anni molti centri hanno iniziato a lavorare, ma manca ancora una struttura: mancano le linee guida, percorsi di formazione omogenei per gli operatori che lavorano in questi centri, una raccolta dati nazionale.
Questi centri in Italia sono una quarantina in tutto. Ci sono delle differenze territoriali?
Sì, al Nord e al Centro sono molto presenti, mentre lo sono poco al Sud. Ci sono due reti principali: c’è la rete Relive e quella dei Cam. Molto spesso sono accreditati, o sono misti pubblici/locali, ma in genere sono collegati alle regioni o agli enti locali. Inoltre, spesso usano approcci diversi. Per questo serve una strategia nazionale che uniformi gli interventi.
Ci sono casi di successo, in cui uomini maltrattanti, grazie al percorso, sono usciti dai comportamenti violenti?
I numeri che abbiamo sono molto confortanti. La maggior parte degli uomini che accedono e completano il percorso di fatto cambiano il loro modo di comportarsi e le recidive nel comportamento violento si riducono notevolmente. Ma va detto che ad oggi non tutti gli uomini che vengono inviati ai centri li frequentano. Alcuni dai primi colloqui di valutazione non vengono ritenuti idonei perché non hanno una forte motivazione al cambiamento, oppure interrompono il percorso. Quindi non tutti coloro che accedono al percorso lo completano. L’obiettivo di queste norme è inviare più uomini possibili, facendo in modo che ci siano automatismi negli invii, in modo da intercettare e bloccare il più possibile questi casi di violenza.
I percorsi sarebbero obbligatori o facoltativi?
Dipende dalla situazione. Nel mio disegno di legge ho previsto che nel caso in cui ci sia un ammonimento o una misura cautelare ci sia un obbligo di frequenza. Se i casi non riguardano queste fattispecie, l’approccio deve essere volontario, tramite i servizi sociali, gli avvocati, o accessi spontanei.
La rete Di.Re (Donne in Rete contro la violenza) ha espresso delle critiche sul suo disegno di legge. Ha parlato di un “miraggio” a proposito della possibilità di recupero degli uomini violenti e ha espresso l’esigenza di mettere piuttosto al centro le donne sopravvissute alla violenza.
Sì, c’è ovviamente un dibattito in corso. Noi stiamo seguendo l’approccio della convenzione di Istanbul, che parla di un approccio integrato. Non è mai un aut aut, è una somma di interventi, con l’obiettivo di fermare la violenza e proteggere le donne. Per farlo è importante sì aiutare le donne, ma bisogna fermare anche il comportamento violento degli uomini. Ogni volta che si riesce a cambiare il comportamento di un uomo violento è un successo, sia per le vittime sia per la società, infine anche per colui che compie violenza, che si libera di un comportamento inaccettabile.
Voi avete previsto anche un “Fondo per i centri per il recupero degli uomini autori di violenza domestica e di genere”. Ma la rete Di.Re sottolinea anche che i fondi pubblici potrebbero essere devoluti alle vittime, e che gli uomini violenti dovrebbero farsi carico del proprio percorso.
Infatti è così. I fondi per i centri antiviolenza quest’anno sono circa 30 milioni e noi riteniamo che non siano sufficienti. Come commissione sul femminicidio abbiamo fatto anche una relazione dettagliata e riteniamo che debbano anche essere erogati in maniera più rapida ai centri tramite le Regioni. C’è molto da fare per supportare l’azione importantissima che i centri antiviolenza fanno da anni. I centri per uomini maltrattanti non sono finanziati con gli stessi fondi e i percorsi degli uomini non sono pagati dallo Stato. Gli uomini pagano il percorso che seguono. Nel decreto agosto abbiamo creato un fondo di un milione di euro (contro i 30 dei centri antiviolenza) che è destinato al funzionamento dei centri, per fare in modo che ci siano su tutto il territorio nazionale e che possano lavorare in rete.
L’altra obiezione che viene mossa è il rischio che l’uomo faccia del suo percorso un uso strumentale per ottenere sconti di pena o agevolazioni nelle cause di affidamento dei figli.
È necessario sgomberare il campo da questa ipotesi, siamo assolutamente contrari al fatto che questi percorsi vengano usati in modo strumentale per ottenere sconti di pena o, ancora peggio, l’affidamento dei figli. Nel codice rosso, voluto dal governo gialloverde, sono previsti sconti di pena per chi è stato condannato e segue i percorsi in carcere. Noi non avevamo condiviso questa scelta, pensiamo che gli sconti di pena non debbano esserci in modo automatico. Ogni percorso va valutato in maniera a sé stante. Lo stesso vale per i percorsi antecedenti alla condanna. Anche per questo diciamo che tutti i centri per uomini violenti debbano essere sottoposti all’unica rete di vigilanza del ministero, affinché tutte le loro relazioni siano certificate e inviate al questore, al giudice o alle forze dell’ordine.
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