Se il ministro della Difesa Guido Crosetto aveva evocato il machete «contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no», a giudicare dal primo giro di nomine del Governo Meloni – in esecuzione dello spoils system – i nostri “patrioti” sembrano avere in dotazione piuttosto un bilancino con cui dosare attentamente muscolarismo e cautela. Basti guardare all’avvicendamento più importante: quello deciso per gli uffici dirigenziali di vertice del ministero dell’Economia.
Qui la presidente del Consiglio ha, sì, ottenuto lo scalpo di Alessandro Rivera, rimosso dalla carica di direttore generale, ma al suo posto ha dovuto accettare la mediazione imposta dal ministro Giancarlo Giorgetti: ovvero l’insediamento di un’inedita diarchia composta da due tecnici, uno scelto dalla premier per gestire le società partecipate e l’altro dal leghista ben introdotto nel “deep state” per tenere i rapporti con le istituzioni europee. Un accordo all’insegna dell’equilibrismo che lascia intravedere all’orizzonte sorprese nelle scelte future del Governo.
L’amico delle banche
Ma facciamo un passo indietro. Rivera, 53 anni, aquilano, laureato alla Luiss, era al Mef da vent’anni. Malgrado la strisciante accusa che gli è stata mossa negli ultimi mesi – in particolare da Fratelli d’Italia – di essere troppo vicino al mondo delle banche, era stato l’incendiario Governo M5S-Lega a nominarlo alla guida del dipartimento del Tesoro, nell’estate 2018.
Si narra che l’allora neo-ministro Giovanni Tria avesse originariamente indicato Fabrizio Palermo, all’epoca direttore finanziario di Cassa Depositi e Prestiti, ma quando quest’ultimo fu promosso dai Cinque Stelle al vertice di Cdp, Tria virò sulla “soluzione interna” Rivera, che fino a quel momento era responsabile del settore bancario del ministero e che negli anni precedenti aveva seguito alcune delicate trattative con la Commissione europea, come quelle per il salvataggio di Banca Etruria e per la ricapitalizzazione precauzionale del Montepaschi di Siena.
Negli ultimi cinque anni, da direttore generale – ruolo nel quale è stato poi confermato dai governi Conte Bis e Draghi – Rivera ha consolidato la propria reputazione internazionale, con apprezzamenti diffusi da Bruxelles al G7. Lo scorso ottobre, dopo aver annusato la voglia di cambiamento della neo-premier Giorgia Meloni, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, si è esposto: «Perdere Rivera al Mef sarebbe un peccato».
È stata, appunto, la presidente del Consiglio – determinata a dare segnali di «discontinuità» – a esigere la defenestrazione del massimo dirigente del Tesoro. E Rivera forse ha capito che la sua stagione era davvero finita lo scorso 29 dicembre, quando durante la conferenza stampa di fine anno Meloni ha sbuffato: «La situazione Mps è stata gestita abbastanza pessimamente».
L’ormai ex dg del Tesoro, sebbene negli ultimi mesi abbia condotto in porto un difficile aumento di capitale per il Montepaschi, paga il brutto naufragio nell’estate 2021 dell’operazione di vendita dell’istituto senese a Unicredit. Ma sconta anche il decollo da incubo di Ita Airways, controllata al 100% dal Ministero dell’Economia e costata nel suo primo anno di vita più di un miliardo di euro ai contribuenti, a fronte di una perdita stimata in 460 milioni.
Compromesso
Nella nuova maggioranza di governo Rivera godeva dell’appoggio della Lega e di una parte di Forza Italia, oltreché dei Moderati di Maurizio Lupi. Il ministro Giorgetti, che da politico (tanto più di fede draghiana) sente di avere bisogno di un burocrate rodato al suo fianco, ha tentato a lungo di impedire la sua cacciata.
Ma quando si è reso conto che Meloni non avrebbe mai autorizzato la riconferma, ha cambiato strategia. E ha tirato fuori dal cilindro una soluzione fantasiosa: se io e Giorgia proprio non riusciamo a trovare un nome che accontenti entrambi – è stato il suo ragionamento – allora nominiamone due, di direttori. E così, alla fine, sarà: da questa legislatura, il Mef avrà di fatto un direttore generale incaricato di seguire i conti pubblici e le partite internazionali e un altro che si occuperà solo delle partecipate.
Il primo lo ha già scelto Giorgetti, a cui preme innanzitutto non deviare dalla linea dettata dall’Ue, mentre il secondo sarà indicato da Meloni, che vuole avere una presa salda sulle società a capitale pubblico o semi-pubblico.
Formalmente l’operazione si completerà costituendo, in seno al ministero, un dipartimento ad hoc dedicato alle partecipate (delega che fino ad oggi sottostava al dipartimento del Tesoro).
Amici e nemici
E ora veniamo ai nomi. Il neo-direttore generale del Tesoro, con deleghe alla macroeconomia e alle relazioni internazionali, sarà Riccardo Barbieri Hermitte, romano, 64 anni, laureato alla Bocconi e attualmente capo economista del Mef.
A chiamarlo in via XX Settembre – nel 2015, sotto il Governo Renzi – fu Pier Carlo Padoan (oggi presidente di Unicredit). Negli ultimi sette anni Barbieri è stato l’uomo che ha predisposto i principali documenti di finanza pubblica, ma prima di diventare un grand commis della Pubblica Amministrazione era un importante manager dell’alta finanza globale.
Ha vissuto cinque anni a New York e venti a Londra facendo gli interessi delle principali banche d’affari del pianeta, da Jp Morgan a Morgan Stanley, da Bank of America-Merrill Lynch a Mizuho. Da segnalare anche una collaborazione di qualche mese, nel 2010, con il fondo Algebris di Davide Serra, finanziere amico stretto di Matteo Renzi.
In pratica il suo è l’identikit del nemico perfetto di FdI, o almeno di quel che il partito diceva di essere prima delle ultime elezioni: «No alla lobby Lgbt! No all’immigrazione di massa! No alla grande finanza internazionale!», gridò Meloni nel famoso comizio davanti agli ultra-conservatori spagnoli di Vox.
Membro dei consigli d’amministrazione di Ferrovie dello Stato e di Cdp, Barbieri ha lavorato in questi anni a stretto contatto con Rivera (i rispettivi uffici erano sullo stesso piano al ministero). La sua, dunque, è una nomina in assoluta continuità con il passato recente del Mef.
Circa le sue convinzioni politiche personali non si sa nulla, ma sulla base del suo curriculum non ci sarebbe da stupirsi se nelle prossime settimane il Tesoro spingesse per la ratifica del Mes tanto odiato dalla destra meloniana e salviniana.
D’altro canto, come detto, la premier potrà consolarsi con il ricco piatto delle nomine nei colossi di Stato: Eni, Enel, Leonardo, Poste, Terna, e la stessa Cdp, dove l’amministratore delegato draghiano Dario Scannapieco sembra avere le ore contate. A gestire il valzer di poltrone sarà la nuova figura del direttore del Mef delegato alle partecipate, che sarà scelto appunto da Meloni.
Tutte le strade portano al nome di Antonino Turicchi, 58 anni, viterbese, laureato alla Sapienza, tecnico vicino alla destra almeno dal 2002, quando – all’epoca semplice dirigente del Tesoro – fu chiamato dall’allora ministro Tremonti per gestire la trasformazione di Cdp da società pubblica a SpA mista.
Turicchi è stato anche direttore esecutivo del Comune di Roma ai tempi in cui era sindaco Gianni Alemanno (assessore al Bilancio era Maurizio Leo, oggi viceministro dell’Economia). Nel suo curriculum spiccano poi la presidenza italiana della multinazionale Alstom e, dal 2017 al 2020, la vicepresidenza di Mps (ma Meloni non aveva detto che è stata «pessimamente gestita»?).
Non solo: era membro del CdA delle Autostrade dei Benetton quando crollò il Ponte Morandi. Attualmente Turicchi è amministratore delegato di Fintecna e dallo scorso novembre è stato scelto dal Governo per pilotare la disastrata Ita verso i tedeschi di Lufthansa. Nel nuovo board della compagnia aerea il Mef ha nominato tra gli altri Gabriella Alemanno, sorella di Gianni. Anche in quel caso, evidentemente, il machete non è stato sfoderato.
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