Al di là di ogni considerazione giuridica, su cui non entrerò, l’arresto del presidente del Consiglio comunale di Roma, Marcello De Vito, ci racconta almeno tre cose sulla cosmologia grillina, di cui almeno due notevoli e una decisamente nuova, e per certi versi inattesa.
La prima, quella nuova. Non lo ammetteranno mai, ma oggi il Movimento 5 Stelle ha perso un altro pezzo importante – forse decisivo – della propria innocenza. Dalla nascita del movimento, ormai 10 anni fa, non era mai accaduto che un esponente di spicco (e, per giunta, storico) fosse accusato così apertamente e in modo così pesante e diretto del reato tabù per eccellenza e, in assoluto, il più inviso alla base grillina: corruzione.
A prescindere dagli sviluppi delle indagini – su cui ero e resto garantista – l’arresto di De Vito rappresenta un enorme “salto di qualità” nella corsa sfrenata del Movimento 5 Stelle ad uniformarsi in tutto e per tutto ai partiti tradizionali.
Secondo, e anche questa è una novità. Smentisce una volta per tutte la bufala più intollerabile di tutte sulla genetica, quasi celeste, “onestà” dei grillini e dimostra quello che in un paese appena più civile di questo non dovrebbe neppure essere in discussione: che non esiste l’onestà “di partito” in quanto “esclusiva” di una parte o dell’altra. E non esiste a prescindere dall’innocenza o meno di De Vito (che personalmente gli auguro).
Esiste, semmai, l’onestà personale, la pulizia individuale, che non ha nulla a che vedere con il partito in cui si milita. O ce l’hai o non ce l’hai. E non è ammantandosene o sbandierandola ai quattro venti che ti consente di autoproclamartene custode e detentore unico.
Chi, in preda a un delirio di ingenuo candore, credeva che il Movimento 5 Stelle godesse di una sorta di salvacondotto rispetto alla “questione morale” non solo dovrà ricredersi, ma prima o poi sarebbe bene che si scusasse pure.
Terza cosa, quella notevole. In questi anni il fu Movimento di Grillo ha costruito sulla cultura forcaiola un vero e proprio impero del consenso, sfruttando subdolamente l’analfabetismo giuridico e civile degli italiani.
Oggi di quel fervore “manettaro” resta traccia soprattutto nella base, nel plotone di hater che gravitano sui social e in qualche esemplare raro di specie protetta in Parlamento (vedi Giarrusso e Sibilia), ma è evidente che il giustizialismo duro e puro è via via scemato in maniera direttamente proporzionale ai posti di potere acquisiti e agli avvisi di garanzia che hanno cominciato a fioccare anche da questa parte.
Ma rinunciare completamente a quel totem fondativo implicherebbe una rottura sentimentale forse definitiva con migliaia di grillini cresciuti a pane e manette. E tanto Di Maio quanto Casaleggio Jr. sanno che, in un momento delicato come quello attuale (col Pd dato addirittura avanti nei sondaggi dopo due anni), non se lo possono permettere.
Ciò spiega perché stamattina il leader pentastellato, ad appena un paio d’ore di distanza dall’uscita della notizia (un tempismo mai visto), ha annunciato l’espulsione del reprobo De Vito, in un ultimo disperato tentativo di lavacro collettivo. E lo ha fatto con un post su Facebook, con una veemenza inaudita persino per gli standard pentastellati, mostrando anche muscolarmente qual è la linea del Movimento.
Lascio volentieri ai dietrologisti le teorie sul regolamento di conti interno (De Vito a Roma è uno degli esponenti di punta dei cosiddetti “ortodossi”, la corrente avversa a Di Maio) e mi concentro sul messaggio simbolico che il capo politico manda all’interno e all’esterno con la “strategia della fermezza”: sul giustizialismo non arretriamo di un centimetro, a costo di lasciare per strada delle vittime, anche eccellenti se necessario.
Perché, a dispetto di una certa tendenza ad agire dietro le quinte, De Vito è esponente di primissimo piano negli equilibri del Movimento 5 Stelle romano e molto vicino a numerosi big. La sua defenestrazione pubblica indica senza mezzi termini la rotta che il M5S intende seguire nei prossimi mesi.
D’altra parte, Di Maio sa bene che, dopo il cedimento su quasi tutti i manifesti delle origini (dalle infrastrutture all’Ilva, dal Tap ai vaccini, dall’euro ai due mandati), e dopo aver tradito la questione etica con il voto sul web e quello di oggi sulla Diciotti, un ulteriore cedimento su questo fronte provocherebbe una nuova emorragia di voti dalle conseguenze potenzialmente imprevedibili.
Per questo Di Maio oggi non aveva scelta: o saltava De Vito o saltava lui. E non c’è dubbio che il fatto che fosse pure un nemico interno abbia reso al capo il compito molto più facile.