Governano da anni, spesso sono accusati di limitare i diritti civili e per questo sono entrati in rotta di collisione con l’Unione europea. Il premier ungherese Viktor Orbán e il suo omologo polacco Mateusz Morawiecki sono stati tra i primi (e tra i più entusiasti) a congratularsi per la vittoria di Giorgia Meloni e ora a Bruxelles si teme che il prossimo governo italiano possa prendere la strada di Budapest e Varsavia.
Emergono infatti alcuni paralleli con le proposte di Fratelli d’Italia. Dopo aver sottolineato che la Costituzione «è bella ma ha 70 anni» e quindi va cambiata, Francesco Lollobrigida, cognato di Meloni, ha annunciato che «la sovranità del diritto comunitario su quello nazionale va rivista». Ovviamente a tutela dell’interesse nazionale, proprio quanto affermano da anni Orbán e Morawiecki. Ma anche altre promesse elettorali avvicinano la destra italiana ai governi dell’Est: la castrazione chimica per determinati reati, già legale in Ungheria e Polonia; la lotta alla presunta lobby Lgbt; nonché la promozione del diritto delle donne a non interrompere la gravidanza, con le proposte emerse dall’inchiesta “Feti d’Italia” pubblicata da TPI che ricordano le norme promosse da Budapest e Varsavia. Insomma, a vedere com’è andata a finire, le premesse non paiono rassicuranti.
La modifica della Costituzione è stato uno dei primi passi del governo Orbán, che ha emendato la Carta ungherese dieci volte dal 2010, sollevando preoccupazioni negli Usa e nell’Ue. Le riforme volute dal “Viktator”, secondo una ricerca pubblicata ad aprile dalla House of Commons Library del Parlamento britannico, «hanno limitato i poteri della Corte costituzionale e ribaltato le sentenze da questa emanate in precedenza. Hanno anche posto restrizioni alla campagna elettorale sui media ed enfatizzato i “valori cristiani”, dando la precedenza ai tradizionali rapporti familiari (eterosessuali)». Inoltre, con il nuovo sistema elettorale introdotto nel 2012, il partito al governo e i suoi alleati «si sono assicurati la maggioranza dei due terzi nell’Assemblea nazionale sia alle elezioni del 2014 che del 2018, consentendo al governo ulteriori modifiche costituzionali». Tali interventi hanno messo a rischio anche l’indipendenza della magistratura, con nomine di ispirazione politica spesso contestate dall’equivalente del nostro Csm. Una questione che preoccupa anche a Varsavia. Le contestate riforme in materia giudiziaria volute dal Partito Diritto e Giustizia (PiS) rischiano addirittura di ritardare l’erogazione alla Polonia dei fondi del Recovery. In particolare, preoccupa l’istituzione di una sezione disciplinare della Corte suprema con il potere di sanzionare i giudici, considerata uno strumento di inaudita ingerenza dell’esecutivo nei confronti della magistratura e che la Corte di giustizia europea ritiene incompatibile con il diritto comunitario.
Tra i temi più scottanti poi, c’è la tutela dei diritti civili, in particolare delle donne e della comunità Lgbtiq+. A partire dal 15 settembre, con un decreto del ministero dell’Interno, l’Ungheria (dove l’aborto è legale dal 1953) “esorta” ginecologi, ostetriche e altri operatori sanitari coinvolti a presentare alle donne in gravidanza le funzioni vitali del feto in “modo chiaramente identificabile”. Tradotto: prima di abortire le donne dovranno ascoltare il battito cardiaco del feto e il medico dovrà presentare un rapporto che lo confermi. Un’imposizione fortemente criticata da Amnesty International. D’altronde, Budapest è da tempo oggetto di biasimo in tema di disuguaglianza di genere. Anche la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic ha accusato il governo Orbán di arretratezza in materia di parità. E in Polonia non va meglio. Nell’ottobre 2020, la Corte costituzionale ha vietato praticamente ogni possibilità di aborto, con due sole eccezioni: nel caso in cui la gravidanza fosse il risultato di stupro o incesto o se la vita della donna fosse a rischio.
La norma, entrata in vigore solo lo scorso anno, tutela ben poco la vita: come nel caso di Izabela, una giovane della Slesia morta a 30 anni, quand’era incinta di 22 settimane. Soltanto l’interruzione di gravidanza avrebbe potuto salvarla ma i medici hanno atteso che il feto morisse spontaneamente così, nel settembre 2021, è morta lei, di sepsi. Il caso, che ha fatto scalpore in tutta Europa, non ha intaccato la norma incriminata. Ma la questione della tutela dei diritti riguarda anche la comunità Lgbtiq+. Dal giugno 2021, una legge ungherese – condannata dall’Ue – vieta la pubblicazione di “qualsiasi contenuto che ritrae e/o promuove l’omosessualità e il cambiamento di genere tra i minori”. Una norma che, secondo Human Rights Watch, «confonde omosessualità e pedofilia». Anche in Polonia la comunità deve affrontare da anni molti ostacoli. Nel 2019, numerose città e regioni del Paese si sono impegnate a opporsi alla presunta “ideologia Lgbt”, che minerebbe i “tradizionali valori cristiani”. Un’altra mossa fortemente criticata dall’Ue. Eppure il consenso dei partiti al potere in Ungheria e Polonia non accenna a diminuire.
Com’è stato possibile arrivare a tanto? La risposta potrebbe risiedere nel sistema di informazione. Dal ritorno al potere nel 2015, il PiS polacco ha preso il controllo della principale emittente televisiva statale del Paese e ha promesso di “ri-polonizzare” i media nazionali. A inizio 2021, il colosso petrolifero statale Pkn Orlen ha acquisito la società privata Polska Press, precedentemente di proprietà di un editore tedesco, prendendo il controllo di 20 dei 24 quotidiani regionali polacchi e 50 tra settimanali e portali web. Inoltre, nel dicembre scorso, la Camera bassa del Parlamento ha approvato una legge che impone agli editori non appartenenti allo Spazio economico europeo di vendere le proprie quote di maggioranza nei media polacchi e vieta di detenere oltre il 49 per cento delle azioni in tali aziende.
Una norma pensata apposta, secondo il quotidiano indipendente Gazeta Wyborcza, per l’emittente privata TVN, di proprietà del colosso statunitense Discovery, che secondo i sostenitori del PiS promuove valori contrari alla tradizione. Intanto in Ungheria, Orbán ha dato vita – grazie a un imprenditore a lui vicino – a un impero editoriale in cui più di 500 organi di informazione regionali e locali fanno eco ai messaggi del partito Fidesz. Tanto che, nel 2019, un rapporto di Reporter senza frontiere, ha riscontrato nel Paese «un grado di controllo sui media senza precedenti in uno Stato membro dell’Ue».
Nulla di tutto questo però sembra scalfire l’amicizia di Meloni con le leadership ungheresi e polacche. Quando alle elezioni mancavano meno di dieci giorni e l’Europarlamento aveva appena condannato (a maggioranza) il governo dell’Ungheria, considerato un “regime ibrido” una sorta di “autocrazia elettorale”, la leader di Fratelli d’Italia difendeva Orbán. «Ha vinto democraticamente più volte le elezioni, anche con un ampio margine di consenso e con tutto il resto dell’arco costituzionale schierato contro di lui», ricordò a Radio anch’io, denunciando la risoluzione votata a metà settembre a Strasburgo e il dibattito su Budapest come «entrambi viziati da un eccesso di ideologia».
Parole al miele anche per il suo alleato polacco Mateusz Morawiecki: «Attaccare l’Ungheria, così come la Polonia, non è una scelta intelligente. Di fronte al conflitto odierno, bisogna avvicinare le nazioni europee piuttosto che allontanarle». Un intento sacrosanto, purché non se ne prenda a esempio le politiche illiberali. «I modelli dei Paesi dell’Est sono diversi dal nostro», ammise Meloni, ma solo «perché fino agli anni Novanta li abbiamo abbandonati al giogo sovietico». «Ora più che mai – aggiunse – dobbiamo sforzarci di dar loro una mano». A persistere nel contrarre i diritti o ad aprirsi al rispetto delle minoranze? Al momento, non è dato sapere.
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