Coronavirus, Sileri è guarito: intervista al viceministro della Sanità
Dottor Sileri, è guarito da Coronavirus, adesso?
Sembra proprio di sì, aspetto solo il verdetto finale dei tamponi.
Proprio lei che è sottosegretario alla Sanità si è ritrovato positivo. È stato uno shock?
Non uno shock, perché se combatti un nemico sei preparato all’idea che possa colpirti. Ma preoccupazione e rabbia, questo sì.
Spieghiamolo.
In questi mesi di emergenza ero andato fino a Whuan in missione, mi ero concentrato ossessivamente sulle protezioni.
E poi?
Quando mi sono ammalato il calcolo dei giorni di incubazione mi ha fatto capire dove e come potevo essermelo preso.
E cioè?
O durante l’imbarco di un aereo particolarmente affollato, per un viaggio di servizio per l’emergenza a Milano, oppure – addirittura – quando sono andato a comprare i bignè di San Giuseppe con mia moglie, prima dei decreti di chiusura dei negozi. Una passeggiata apparentemente innocua.
Pazzesco.
Il conto dice questo, e basterebbero i due scenari di cui parlo per spiegare quanto è subdolo questo nemico. E a capire perché le chiusure e le limitazioni di viaggio limitano il contagio.
Ovvero?
Ti puoi salvare da una battaglia in trincea, ma il nemico ti può colpire a tradimento ovunque, magari quando sei lontano dal fronte. Magari in pasticceria perché hai solo toccato una maniglia che un’ora prima era stata afferrata da qualcuno che aveva starnutito.
Per lei è stato un decorso particolare, perché oltre ad essere membro del governo è anche medico.
Vero. Pensi che il primo segnale per me è stata la perdita dell’olfatto.
È capitato a tanti.
Sì, ma io non ci ho fatto troppo caso perché di solito soffro di allergia stagionale, e mi capita sempre. Ero abituato.
Quando si è allarmato?
Poco dopo, e per un piccolo dettaglio. Ero stanco, al ministero ho preso un caffè per tirarmi su e…
Cosa?
Ho bevuto. Ma non ho sentito nemmeno il sapore.
E poi?
Dentro di me ho avuto certezza di essere contagiato quando dopo la perdita totale di gusto e olfatto ho provato anche bruciore agli occhi. Ero un caso perfetto descritto dalla sintomatologia di tanti contagiati.
Si è fatto la diagnosi.
Mi sono messo subito a pensare ai miei contatti. Ho fatto mente locale e mi sono ricordato che avevo anche un collega a casa malato. Mi sono subito preoccupato dei miei colleghi e della mia famiglia, fra l’altro con un bambino di pochi mesi.
Per fortuna lei era positivo, ma nessuno di loro era stato contagiato.
Per fortuna. Ma a quel punto il Corona ha iniziato la sua guerra contro di me.
Come?
Fra mercoledì e giovedì sono passato da 37.4 a 38. E ancora non era nulla. Sabato pomeriggio oltre alla febbre è arrivata anche la tosse. Tignosa, fastidiosa, una morsa sui polmoni che ti taglia il fiato.
Il peggio stava arrivando.
Domenica e lunedì il mio saturimetro ha iniziato a scendere pericolosamente.
Spieghiamolo: è il congegno digitale da pochi euro che si mette al dito e che misura l’ossigenazione del sangue.
Sono stato i momenti peggiori. Sdraiato arrivavo fino a 93, 92 e 91… e non riuscivo a dormire.
E che faceva?
Mi alzavo in piedi per provare ad agevolare la respirazione, e dunque l’ossigenazione. Quando il saturimetro scende intorno ai 90 inizia ad essere pericoloso.
Il punto più basso che ha toccato?
Sono sceso fino a 89, ma una sola volta.
Perché potrebbe essere il segnale di una polmonite interstiziale, l’arma più letale del virus.
Esatto. L’infettivilogo mi ha detto: “Organizziamo una Tac?”.
E lei?
Ho ragionato da medico. In quel momento tutti gli indicatori erano stabili. Ho pensato: forse ci sarà una tracheite, forse un risentimento, ma questa non è una polmonite.
Lei che ha fatto migliaia di diagnosi agli altri stava facendo una delle più delicate.
Ho detto al mio collega: “Privilegiate qualcuno che ha più bisogno di me. Tengo duro così”.
Non aveva dubbi?
Scherza? Un medico è un uomo come tutti gli altri. Il giorno dopo che mi ero scoperto positivo, pensi, è morto un infermiere del 118 che aveva la mia stessa età: 47 anni!
E ci ha pensato?
Era come se fosse accaduto a me. È vero che tutti reagiscono in modo diverso, ma questo virus non guarda in faccia nessuno.
Era passato il messaggio: “colpisce solo gli anziani”.
Follia. Quando il saturimetro scendeva mi sono immaginato subito intubato, come mille altri, anche giovanissimi che abbiamo visto in questi giorni.
Pierpaolo Sileri, sottosegretario alla Sanità. Il malato più importante nella scala gerarchica tra i contagiati di Coronavirus fino ad oggi: medico chirurgo, accademico, numero due del ministro Roberto Speranza. Nelle prime ore dell’emergenza era quello che aveva messo la faccia, per difendere le prime le scelte fatte dal suo governo. Adesso ride amaro: “Se uno prende le prime puntate a cui ho partecipato, troverà che dovevo difendermi dall’accusa di aver chiuso i voli con la Cina e da quella di fare troppi tamponi. Buffo come cambiano gli scenari. Ora, anche dopo quest’esperienza, dico: facciamone il più possibile!”.
Continuiamo il racconto della sua malattia.
Quando la sera ero a casa vedevo il bollettino con cinquecento, e poi settecento morti in un solo giorno, ho pensato: “Gli altri siamo noi”.
Perché?
Quello che stavo raccontando da settimane da membro del governo poteva accadere proprio a me. Gli altri siamo noi, sempre.
Poi per fortuna è arrivato il primo segnale positivo.
Mercoledì, a sorpresa è iniziata a calare la febbre, e poi – in serata – è addirittura scomparsa.
Tutto passato?
Esatto. Con la stessa velocità con cui mi era arrivata.
Non ha più sintomi?
Ancora oggi non sento odori e sapori: ma le assicuro che se questo fosse un prezzo permanente, come talvolta capita, stapperei volentieri una bottiglia per brindare.
Ha avuto un decorso molto rapido.
Sì, e nessuno di noi sa perché. Questo significa che molti guariscono con sintomi molti più leggeri e nemmeno se ne accorgono.
Quanto è passato adesso dalla fine?
Due giorni.
Che bilancio fa?
Intanto alcune considerazioni positive: se da positivo non ho avuto una catena intorno a me, significa che le precauzioni ossessive che avevo osservato nei confronti degli altri hanno sortito effetto.
Ossessive, dice?
Non per eroismo. Usavo precauzioni estreme per il bimbo di otto mesi, mi ero abituato.
E adesso dice: più tamponi.
Ho sempre difeso la strategia dei tanti tamponi, fin dall’inizio, anche quando c’era discussione, perché servivano per delimitare le zone. Avevo visto la Cina. Adesso sono certo che siano una arma di contenimento anche in Italia.
Non riuscivano a farli però.
È vero. In alcuni regioni c’erano troppo pochi lavoratori per esaminare i test. E poi bisogna snellire la catena.
In che senso?
A me pare assurdo che un carabiniere dei NAS debba prendere una provetta a Catania e portarla a Roma.
All’Istituto superiore di sanità.
L’ente nazionale deve certificare i laboratori che operano nelle regioni, non accatastare provette!
Facciamo un esempio.
Forse servivano più caselli all’uscita dell’autostrada. Così non si crea la coda in un unico varco.
Perché la rete c’è?
Ma certo: abbiamo ospedali, istituti di ricerca, enti pubblici! Aprire più caselli per far scorre il traffico.
Poi ci sono terapie intensive.
Contano tanto perché è lì che viene salvata la vita. Va rafforzata la rete territoriale. Chi ha i sintomi deve essere ricoverato e monitorato.
E poi c’è il tema dei positivi.
Servono caserme, hotel, strutture dove raccogliere i positivi. Perché non tutti possono isolarsi a casa. Oppure hanno problemi. Molti vivono in pochi metri quadrati, in quattro. Ecco a chi bisogna dare le mascherine e le protezione!
Lei ha lavorato in Inghilterra e America, nel privato e nel pubblico.
Esatto. Ora sono al San Raffaele, quindi in un sistema pubblico, perché convenzionato. Dobbiamo rafforzare questa rete.
Ci sono stati i tagli o no?
Mi hanno mandato in questi giorni una intervista di mesi fa dissi a Formiche.net dove dicevo: “I tagli, i sottofinanziamenti, hanno pesato: negli ultimi anni i fondi non sono cresciuti di pari passo con le esigenze della popolazione”.
Questo è il tema dei numeri.
Il problema è come calcolare. La quantità di investimento va gestita rispetto alla platea degli assistiti. Non in termini assoluti.
Quindi se aumentano i malati e i fondi non aumentano in proporzione è come subire un taglio.
Esatto. E tuttavia la risposta del sistema pubblico è stata eccezionale ed eroica. Ieri da Giletti l’immagine dei colleghi segnati dalle mascherine dopo ore di turno mi è sembrato che dicesse tutto meglio di ogni altro discorso.
Però bisogna imparare da quello che è accaduto.
Il virus non ha trovato il sistema sanitario in forza. Quest’anno avevamo appena stanziato due miliardi in più. Ma le risorse agiscono nel tempo.
Dove bisogna investire?
Il servizio nazionale usciva da dieci anni di contrazioni e bisogna intervenire ovunque. Questa guerra ci lascerà decine di terapie intensive, ma serve anche più prospettiva.
Cioè?
Negli ultimi anni la programmazione per i medici specialisti ha lasciato a desiderare: con questo governo avevamo già aumentato il numero delle borse ma adesso serve un piano straordinario per la formazione.
Più medici sui banchi?
Non solo: più medici, più infermieri, più biologi, più farmacologi, più ricercatori. Se c’è una cosa che abbiamo capito tutti, stavolta, è che la sanità è un sistema complesso in cui servono moltissime competenze, anche per battere un solo virus.
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