Sono le 17.30 di un venerdì di metà marzo. L’Italia è ancora per metà rossa, i cittadini attendono la conferenza stampa del loro nuovo premier, la prima da quando si è insediato a Palazzo Chigi prendendo il posto di chi invece ne macinava quasi una a settimana, di conferenze: Giuseppe Conte.
Mario Draghi prima di tenerne una ha aspettato più di un mese: nel frattempo ha varato un nuovo dpcm e un decreto che ha tinto di rosso quasi tutto il Paese fino a dopo Pasqua; ha accelerato, sospeso e riavviato una complicata campagna vaccinale; modificato gli organismi di gestione dell’emergenza sanitaria, dal Cts ai vertici della Protezione Civile.
Lo stile del primo incontro ufficiale con i cronisti è diverso rispetto a quello di Conte: il timbro di voce è più grave, la cravatta e l’abito più scuri, l’atmosfera più tesa. Ma su una cosa Draghi non si differenzia dal suo predecessore: il ritardo, che per l’ex premier era diventata una cifra.
Se il rinvio delle conferenze stampa di Conte di ora in ora era ormai un’abitudine per chi, a casa, attendeva di comprendere “di che morte morire”, anche Draghi non è stato da meno. Nessuno se lo aspettava dall’ex banchiere centrale dal profilo internazionale osannato dalla stampa per portamento, linguaggio, gusti alimentari, abbigliamento e precisione, e invece si è fatto aspettare proprio come l’avvocato.
Certo, non è dipeso tutto da lui: il Cdm che ha preceduto l’incontro con la stampa è iniziato tre ore e mezza dopo l’orario previsto a causa dell’acceso scontro tra le forze politiche sulle cartelle esattoriali (tanto che la Lega, a un certo punto, ha minacciato di non partecipare).
Ma nella nuova sala stampa di Palazzo Chigi (con tre sfumature di blu e una linea tricolore, come descrive Luca Telese) i giornalisti in trepidante attesa hanno dovuto attendere fino alle 20. Anzi, fino alle 20 e 02. E qualcuno aspettava ancora le 20 e 20.