Non era un club del bridge e nemmeno una Onlus ma, come dicevano in segreto parlando tra di loro i suoi stessi animatori, un «tubo digerente». Digeriva soldi, cioè, per pagare tutto quel che serviva ad alimentare il culto di “Matteo Re”, le sue battaglie, le sue ambizioni. Nella sua appassionata autodifesa alla Leopolda Matteo Renzi ha gridato: «Open non era una corrente di partito, come ipotizzano i pm, ma una fondazione culturale! Si occupava di idee!». Tuttavia, alcuni dei documenti più illuminanti che emergono dall’inchiesta di Firenze (e che TPI è in grado di rivelare) ci mostrano un altro scenario, del tutto opposto, molto più prosaico e a ben vedere molto più drammatico. Quello, cioè, di una enorme struttura di lobbying, di finanziamenti, di interessi, di nomine. E, soprattutto, una gigantesca macchina da soldi, che si preoccupa di procacciare risorse sempre più ingenti per finanziare le spericolate imprese dell’uomo di Rignano. Quando devono definire cosa sia la fondazione, in uno dei loro fitti dialoghi, Alberto Bianchi (il responsabile della macchina economica) e Luca Lotti (l’uomo forte dei renziani al governo) sono molto più concreti e crudi del loro leader. I due si rimpallano per mesi le cifre dei finanziatori. Si aggiornano a vicenda sulla loro disperata caccia all’ultimo euro. Si scambiano gli emendamenti che devono entrare nelle leggi, dettati dai finanziatori più generosi, si disperano per le spese (“pazze” e non) a partire dal famoso volo intercontinentale da 135mila euro, ovvero il costo del Falcon noleggiato perché il premier vada in America, per intervenire al convegno organizzato dalla fondazione Kennedy. E così, in una mail in cui parla dell’inchiesta, Bianchi ricorre proprio a quella folgorante metafora gastro-digestiva, per spiegare come funzionava il meccanismo: «Open non ha mai avuto patrimonio… solo finanziamenti». E subito dopo: «Era una specie di tubo digerente, perché i soldi, appena entravano, uscivano». Open dunque, per il suo stesso demiurgo, è come il cavallo del leggendario Barone di Münchhausen, che, essendo tagliato a metà, beveva di continuo perché non tratteneva nessun liquido.
Spese astronomiche
I pm, in due tabelle illuminanti che trovate in queste pagine, fanno il conto di quanto spende Open fra Leopolde e primarie tra 2012 e 2018. Il totale delle uscite è una cifra astronomica per gli standard della politica di oggi: 5 milioni e 204mila euro in soli sei anni. Si parte da 640mila euro per le primarie del 2012, quando la fondazione si chiamava ancora Big Bang e Renzi provava (senza successo) a sfidare Pierluigi Bersani per la segreteria. Il “Giglio magico” all’epoca è ancora solo un gruppo di outsider, senza radicamento nel partito. Per questo l’ex sindaco non bada a spese, in violazione del tetto di 250mila euro che gli era imposto dallo statuto del Pd. Renzi perde, ma riesce a trasformare quella sconfitta nel suo trampolino di lancio. Le successive Leopolde accendono i riflettori su di lui: diventano il luogo da cui parte la sfida per la segreteria e in cui nel voto popolare viene sconfitto Gianni Cuperlo. Da quel momento le Leopolde si tramutano nel motore che sostiene Renzi quando arriva a cumulare l’incarico di leader e di premier. Poi la fondazione tocca il picco di costi nel 2016, l’anno del referendum: un milione e 850mila euro per la campagna elettorale del Sí (chiuse con la rovinosa sconfitta e le dimissioni da premier).
La lista dei costi almanaccati dai pm si chiude con 930mila euro di spese nel 2017, quando pesano, sommandosi gli uni agli altri, i costi della “reincoronazione” del Lingotto dopo la sconfitta: le primarie del 2017 – che servono a far dimenticare la promessa infranta di addio alla politica – e la campagna elettorale del 2018, con la disfatta finale in cui Renzi abbandona la segreteria del Pd. In questo passaggio cruciale è importante capire il contesto in cui si svolge l’attività di Open: le finanze del partito sono già in crisi prima del referendum, i suoi bilanci virati in rosso cupo e i suoi dipendenti in cassa integrazione. Così la fondazione attinge denaro dai suoi sostenitori per foraggiare Renzi ma al contempo aspira risorse dal Pd già indebitato per la stessa finalità: e mentre il Pd si tramuta in un partito personale, la fondazione diventa un partito nel partito. Le nomine spesso nascono nella chat tra Bianchi e Lotti: «Ma è “nostro-nostro”?», chiede Lotti quando quello gli fa il nome di un possibile candidato in lizza per una società pubblica. «Sì», risponde Bianchi. «Allora mandami un curriculum», conclude Lotti, che chiamano “lampadina” per il suo acume. Ad un tratto, forse esasperato dal continuo “totonomi”, Bianchi, nel novembre del 2017 scrive a proposito della nomina di un parente nel consiglio d’amministrazione di Montepaschi: «Mio fratello è presentabile, o non se ne parla?». Il tubo digerisce tutto. Dopo la sconfitta al referendum il dissesto, già grave, si fa drammatico, e nelle casse del partito rimangono solo gli spiccioli: 1 milione e 721.470 euro a fronte dei 9 milioni e 826.773 euro che c’erano a fine 2015. Il deficit finale: 9 milioni e 465.745 euro. Secondo il tesoriere Francesco Bonifazi (renziano, ovviamente) alla fine della campagna “Basta un sì” il Pd ha speso 11.671.873 milioni di euro: il più grande sforzo economico del decennio (che non evita, come è noto, una rovinosa sconfitta).
Ma anche il “tubo digerente” si svuota: malgrado i soldi continuino a entrare (7,2 milioni di euro dai finanziatori nel periodo di attività) la fondazione chiude il suo bilancio in rosso. Bianchi non nasconde i suoi timori agli amici del “Giglio magico”. Scrive loro una nuova mail che gli inquirenti trovano tra le carte sequestrate a Marco Carrai. Il tono è affranto. L’avvocato della fondazione prende spunto da una interrogazione in cui Sel chiede conto dei bonifici di Bianchi a Open, interrogandosi sulla natura di questo flusso di denaro. Bianchi, spiegando a Carrai, conferma di aver versato 30mila 550 euro e usa parole durissime e, il cui significato è chiaro, anche per i suoi amici: «Dato che il procedimento di riconoscimento della fondazione non è ancora concluso, gli amministratori sono illimitatamente responsabili dei debiti della stessa». E poi, qualora non fosse tutto chiaro: «Anzi. Io sono illimitatamente responsabile essendo evidente che voi siete coperti da me». Un messaggio esplicito fino alla brutalità. «Non essendo pensabile ricevere decreti ingiuntivi, con i rischi anche mediatici che ne sarebbero conseguiti, ed essendo in ultima analisi io tenuto al pagamento in difetto dei fondi della fondazione, ho provveduto io stesso al versamento della somma necessaria». L’epilogo della mail non ha bisogno di nessun commento: «Non credo serva rigorosamente a nulla raccontare a terzi queste cose, ma voi dovete saperle». Il tenore delle spese Bianchi lo chiarisce in un’altra mail del 2016: «Ogni Leopolda ci costa tra 400 e 500mila euro. Se decidiamo di cambiare format – avverte – può costare di più, non di meno. Servono dunque risorse».
Quei debiti scaricati sul Pd
Quando questa turbinosa giostra si ferma, il “tubo digerente”, pur avendo bruciato 7milioni, lascia un buco di mezzo milione di euro di debiti da pagare. Troppo. Qualcosa si raccoglie tra gli amici: «Arrivati 200k (200mila euro, nda) – da Tcl, (Librandi). In settimana aspetto 180 da Eurn. Almeno evitiamo i decreti ingiuntivi». La risposta di Lotti è laconica e disarmante: «Sì, sapevo». Bianchi non sa come fronteggiare tutte le spese, così si scaricano le fatture insolute sull’altro soggetto economico che i renziani controllano: il Pd. La sola macchina social di Open costa (da subito) 7mila euro al giorno (poi 330mila/anno). Bianchi comunica a Lotti la strategia: “trasferire” alcuni dei debiti da Open al partito. Ad esempio la struttura social, e addirittura i compensi del suo organizzatore, Alessio De Giorgi a cui Bianchi scrive che non può pagarlo. Ma anche che un rimedio c’è. «Da settembre – gli risponde De Giorgi – Bonifazi mi ha detto che ha senso che io passi al Pd con contratto e compenso». Tra le carte dell’inchiesta c’è anche una mail clamorosa che Bianchi scrive ai suoi due soci di studio. È un documento con cui spiega che parte dei compensi per le sue attività professionali di consulenza non saranno devoluti allo studio, ma direttamente ad Open: «Cari Gherardo, e Andrea, come ricorderete, allo scopo di consentire a taluni soggetti lo svolgimento del loro desiderio di contribuire in una forma peculiare alle attività della fondazione Open, nel 2016 convenimmo che figurasse un incarico di un nostro cliente direttamente a me».
Ecco il meccanismo che Bianchi illustra ai soci: «Questo senza sottrarre alcunché allo studio. Sia perché si trattava di un compenso “ulteriore” sia perché il netto rilevato dal nostro commercialista fu direttamente versato a Fondazione Open e al Comitato del Sì al referendum». E non si tratta di spiccioli: «Vi allego la scrittura che firmammo relativa a un compenso lordo di 750mila euro». Al netto delle tasse, Bianchi gira i soldi alla sua fondazione. E così altri 400mila 838 euro sono finiti nel tubo. L’accusa dei pm, come è noto, è che attraverso il compenso professionale sia stata realizzata un’operazione di finanziamento illecito alla corrente di Renzi. Il cliente dello studio è il Gruppo Toto che ha la concessione dell’autostrada dei parchi, che collega Roma al litorale adriatico. Lo stesso che ritroviamo citato nella chat tra Bianchi e Lotti, quando l’avvocato tempesta il sottosegretario chiedendogli di far passare gli emendamenti che il gruppo richiede.
La cosa interessante è che Bianchi se la prende con i parlamentari del Pd non ancora assoggettati a Renzi che con i loro legittimi emendamenti sui costi delle opere “in house” creano un disagio al gruppo finanziatore di Open: «Mi viene detto – scrive a Lotti – che il Pd ha presentato sul tema un emendamento che rischia di portare la quota in house per strada dei parchi al 40 per cento». Non sia mai: «Questo – scrive Bianchi a Lotti incollando l’emendamento – è il testo corretto…». Segue il testo con le modifiche gradite dai Toto. Quando il Pd cambia segretario finisce il legame con il Pd. E quando nasce Italia Viva, Open chiude: il tubo delle meraviglie smette per sempre di digerire denaro.