Onorevole Fioroni, come ci si sente ad aver condotto l’ultima indagine sul caso Moro?
«Speriamo che sia davvero l’ultima».
Lo dice perché lei ha scritto la verità ufficiale sul più grande mistero della Repubblica? O perché teme che possa uscire altro?
«Voglio chiarire: la nostra relazione non rappresenta l’unica verità, o tutta la verità sul caso Moro».
No?
«No. Contiene tutte le verità che è stato possibile riscontrare in modo storicamente e documentalmente certo».
Perché questa precisazione?
«La nostra indagine ha prodotto moltissimi elementi nuovi, anche di dubbio, che abbiamo scoperto durante le indagini».
C’è un però?
«Sì. In alcuni casi, come le spiegherò, elementi clamorosi e novità venute alla luce non hanno trovato i necessari riscontri».
Nessuno, prima di voi, ha mai avuto i vostri strumenti di indagine.
«È vero. Abbiamo potuto consultare qualsiasi documento prodotto dalla giustizia e dalle forze dell’ordine italiane».
Avete messo in discussione la ricostruzione dei brigatisti.
«Era inevitabile».
Perché?
«In alcuni casi – penso al cosiddetto memoriale Morucci Faranda – perché quella era la forma che lo Stato poteva utilizzare nel 1990».
E dunque?
«C’erano già allora elementi che non stavano in piedi».
E negli altri casi?
«Abbiamo riscontrato, come nel caso clamoroso del cosiddetto “tamponamento”, il giorno del rapimento, che la ricostruzione dei brigatisti non stava in piedi».
Perché?
«Per esaltare il loro ruolo e nascondere quello degli altri».
E poi c’è la morte.
«Tutte e tre le principali versioni fornite dalle Br – Morucci, Gallinari, la Braghetti – sono false».
Perché hanno mentito?
«Posso immaginarlo, ma non lo so. Ciò che è certo è che abbiamo stabilito una dinamica più precisa di quella esecuzione».
Non un colpo di grazia?
«Al contrario. Colpi al cuore e al corpo, sparati con perizia proprio perché non morisse».
Perché?
«Moro è morto dissanguato dopo un’agonia. Volevano che soffrisse».
Giuseppe Fioroni oggi lavora – da volontario – in un ospedale militare. Insegna, non si occupa più di politica. Ma continua a pensare al suo ultimo incarico parlamentare: i quattro anni di lavoro della sua commissione di inchiesta sul Caso Moro. L’ex ministro difende le scelte della relazione finale: «Abbiamo lavorato nel segno della trasparenza, desecretando tutti i documenti».
Dice? Ci sono ancora migliaia di pagine non accessibili.
«Solo quelle su persone ancora implicate in procedimenti aperti o quelle per cui i titolari dei documenti (pubblici o privati) hanno richiesto il segreto, come è per legge loro diritto».
Fra le altre, però, è rimasta secretata l’ultima intervista, inedita, di Tina Anselmi.
«Da un controllo, è uno dei casi in cui chi l’ha versata ha chiesto il mantenimento della riservatezza».
Dove si trovava il giovane Fioroni, militante della Dc, il giorno del sequestro?
«Ero responsabile giovanile di Viterbo. Ma stavo camminando con un collega vicino a via Fani».
Perché?
«Tornavo dalle esercitazioni di anatomia alla Cattolica, vicino al Gemelli, sopra via Stresa».
E cosa accadde?
(Ride). «Ero con un amico. Ci fermarono in uno dei primi posti di blocco, forse perché avevamo l’Eskimo».
E come andò?
«Gli agenti trovarono in una busta che portavamo con noi, un teschio, due femori, frammenti di ossa umane».
Vi arrestarono?
«Cercavano Moro: si tranquillizzarono solo quando mostrammo i tesserini».
Di che corrente era il giovane Fioroni?
«Andreottiano doc! Avevo 20 anni, ed ero per la fermezza, ma senza accanimento».
Voi siete riusciti a ricostruire che il “partito della trattativa”, poco prima del 9 maggio, era vicino alla liberazione di una brigatista.
«Sì, c’erano due canali. Un imprenditore israeliano aveva messo a disposizione 10 miliardi per pagare il sequestro, tramite il Vaticano».
Possibile?
«Sì, ci sono dei riscontri anche nei diari di Andreotti. Il canale del Papa contava però anche sui cappellani carcerari».
E l’altro canale?
«Era di sinistra. Si era aperto a Milano, intorno alla Libreria Calusca. A Roma intanto il deputato socialista Signorile parlava con Pace e Piperno, Faranda e Morucci».
Si individuò una possibile pedina di scambio.
«Una brigatista malata di tumore, Paola Besuschio. Era possibile graziarla».
Però c’era il problema che lei non voleva chiedere clemenza.
«Abbiamo ricostruito che era stato aggirato questo ostacolo. Era già tutto pronto. Signorile ci ha detto che lui e Cossiga aspettavano notizie positive. Ma questo accadeva proprio la mattina del 9 maggio!».
Le Br uccidono Moro proprio quel giorno, guarda caso.
«Una fuga di notizie, forse spiega alcune allusioni di Pecorelli».
Perché lei dice che il memoriale Morucci conteneva fatti palesemente falsi?
«Era il perimetro della verità dicibile 40 anni fa: in realtà era un documento poligrafo».
Scritto a più mani.
«Conteneva cose dette da pentiti e dissociati, testimonianze dove pochi si erano assunti le responsabilità di molti. A questi si erano aggiunte parti scritte dagli ufficiali dei Servizi».
Un documento in ogni caso straordinario.
«Lo abbiamo ritrovato con gli appunti di una suora, si dice che arrivi a Cossiga nel 1990: “Solo per lei signor presidente”. Ma probabilmente circolava da almeno un paio d’anni, forse di più e altri lo avevano letto».
Cosa era quel documento?
«Per metà un memoriale, per un’altra metà frutto degli archivi delle agenzie. Era – uso un termine brutale – una prima “tombatura” del caso Moro».
A che documenti avete avuto accesso?
«Ci hanno mostrato tutto quel che c’era».
Può ammettere che ci sono stati depistaggi?
«C’è stato… un tamponamento della verità».
Ovvero?
«Persone di cui era stata accertata la presenza sulla scena del crimine a via Fani sono dovute sparire»…
Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui