Del suo compare “Carletto”, Matteo dice che di politica non capisce un granché neanche se gli fanno un disegno. Carlo, invece, il caro Matteo lo schifa proprio: di lui, scandisce, «non me-ne-frega-niente», figurarsi andarci a braccetto. Ma alla fine tra loro matrimonio fu, sebbene di interessi: Matteo Renzi e Carlo Calenda se la sentono, ma i sondaggi della vigilia che misurano le intenzioni di voto e non le ambizioni dettate dall’ego, per adesso restano deludenti. Epperò più e meglio del divorzio tra Francesco Totti e Ilary Blasi, la loro unione, anche per le modalità rocambolesche con cui ci si è arrivati, rimane la storia di copertina dell’estate 2022: ora che sono freschi di luna di miele già impazzano i pronostici. Quanto dureranno assieme? In passato quando ci han provato a condividere lo stesso tetto sulla testa è durata pochino.
Ma adesso è un’altra storia o almeno così la raccontano in questo anomalo agosto di campagna elettorale prima delle urne del 25 settembre. Giurano di essere intenzionati a mettere infine la testa a posto e a resistere agli istinti di battitori liberi per gettare le fondamenta per la casa dei riformisti che non c’è e soprattutto scrollarsi di dosso la nomea di eterni guastatori, una maledizione, diciamo così che però continua a inverarsi. Insomma vogliono, vorrebbero, lanciarsi in un nuovo format che non propriamente si attaglia alle loro corde, ossia quello dei costruttori. Non tanto di un soggetto politico nuovo di pacca quanto di un nuovo inizio per il Paese, una rifondazione «dell’Italia sul serio», roba di rimanere nei libri di storia. Dove una autocertificata illibatezza rispetto alle alleanze con i populismi con cui il Pd si sarebbe invece compromesso, per esempio, sarebbe la garanzia di affidabilità che a tutti gli altri manca per il grande spariglio. Quello riuscito a Emmanuel Macron in Francia secondo un modello che ha rotto lo schema destra-sinistra ma che è già démodé in Francia come hanno dimostrato le ultime presidenziali vinte da Macron ma con una fifa blu fino all’ultimo.
Ma tant’e: offrendosi di marciare sotto le insegne del migliore per antonomasia, Mario Draghi e in nome dell’Agenda Draghi che pure il premier dimissionario ha negato che esista, il duo Calenda Renzi avrebbe l’ambizione di traghettare l’Italia nella Terza Repubblica, una terra promessa definitivamente post ideologica in cui non ci sarà più spazio per chi si ostina a guardare ai vecchi schemi o steccati del passato ma solo per l’Italia futura della serietà e delle competenze di cui si sentono campioni. Ce la faranno?
Intanto hanno unito i tic caratteriali: entrambi, Matteo e Carlo sono due prime donne, lo si dica senza animosità, con l’antico vezzo delle leadership di vecchia marca italica del capotavola che, come insegna il vecchio adagio, è dove mi seggo io. E in questo caso i capotavola sono addirittura due. Che in passato poco sono riusciti a condividere con altri aspiranti costruttori di futuro. Che si tratti del famigerato centro e dintorni o altro.
A Matteo Renzi, per dire, non è riuscita al massimo della sua parabola politica, l’impresa di trasformare il Pd di cui è stato segretario nel motore di quel Partito della Nazione a cui stava lavorando prima che fallisse la liaison dangereuse con Silvio Berlusconi via Denis Verdini. Carlo Calenda parla da cinque anni della necessità di mettere in piedi un fronte repubblicano da contrapporre agli altri, i mostri non necessariamente solo a destra, ma non ha mai trovato compagni di viaggio che reputasse alla sua altezza e dell’alta missione: da ultimo quando ha rotto con il Pd a patto elettorale ormai fatto, ha rinfacciato persino a chi gli ha insegnato cos’è l’Europa, ossia alla sua ormai ex storica alleata Emma Bonino che quel patto elettorale con i dem voleva confermarlo, di essere praticamente una venduta dedita al fuffismo.
Per questa comune nomea di guastatori più che di costruttori Carlo e Matteo sono soprattutto sospettati con questa legge elettorale di poter al massimo giocare a far perdere gli avversari tutti, sia quelli del campo minuto di Enrico Letta che quelli dello squadrone litigioso ma accreditato di vincere del centrodestra a trazione meloniana. E al più di potersi in qualche modo intestare il previsto catafascio dei pentastellati che cinque anni fa vellicando un diffuso sentiment anti casta e anti élite e in nome del reddito di cittadinanza avevano fatto il boom alle urne. A tre anni dal Jobs Act di Renzi che aveva mandato in soffitta l’articolo 18 rompendo con la sinistra del Pd e con i sindacati. Un’affermazione quella dei 5S e della protesta di popolo che ha rappresentato verso cui invece Calenda nutre una incomprensione radicale come quella che Enrico Bottini, il protagonista del Libro Cuore che interpretò da bambino sotto la regia di suo nonno Luigi Comencini, nutriva per Franti il cattivo per antonomasia.
(Franti ride perché è cattivo – pensa Enrico – ma di fatto pare cattivo perché ride. Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa. Umberto Eco, elogio di Franti).
Epperò ora che declina la stella del Movimento di Conte, i sondaggi continuano a non premiare in termini assoluti né Renzi né Calenda, insieme o separati che vadano. Sarà perché a entrambi manca quella gravitas nel senso di ancoraggio a una idealità forte che li rende sospettabili di tutto e il suo contrario, una imprevedibilità che caratterizza persino i loro stessi rapporti personali.
Rivendicano l’egemonia sulla stessa area politica moderata, ma Calenda e Renzi non si sono risparmiati nulla quanto a insulti e non una vita fa. Calenda si è fatto a lungo pubblicità marcando le differenze, diciamo di postura istituzionale, rispetto a Renzi. Gli ha rimproverato i contratti da conferenziere «pagato dall’Arabia Saudita, immorale e pericoloso. È inaccettabile che Renzi, senatore della Repubblica pagato dai cittadini, vada in giro per il mondo a fare il testimonial di regimi autocratici dietro pagamento di lauti compensi». Ma pure il tatticismo esasperato e le alleanze pericolose: «La rifondazione della politica non si fa mettendo insieme pezzettini che in Sicilia si alleano con Miccichè e Cuffaro o coi 5 Stelle. Non me ne frega niente di Renzi e di questo centro che è un fritto misto. Mi fa orrore. Mi sono rotto le balle».
Ha avuto persino da ridire sul format della Leopolda: «Ma chi se ne frega della Leopolda: un gruppo che si incontra ogni anno per dirsi che sono i più bravi, i più fighi, i più simpatici, se la suonano e se la cantano». Tramite il suo braccio destro Matteo Richetti, un tempo braccio sinistro di Renzi stesso, ha cercato di cannoneggiarlo persino nell’orgoglio. «Matteo è un piromane che incendia il Palazzo». Ora non è che Renzi abbia usato il fioretto con l’amico Carletto che chiama così per il gusto di fargli dispetto: «Non è cattivo: quando è tranquillo è un piacere parlarci. Ma quando si lancia in previsioni alla divino Otelma non ne azzecca una». Epperò Calenda è stato prodigo di elogi con Renzi presidente del Consiglio e sa che è un professionista della politica a differenza sua. Renzi lo ha blandito in passato come possibile front man del Pd e specie ora che c’è da tornare davanti al giudizio degli elettori con lui impietosi, ha detto che è Calenda quello che deve giocare con la maglia del numero 10 che però sarebbe la sua.
Insomma l’uno vede e se serve enfatizza i limiti e i pregi dell’altro. Ma soprattutto l’uno vede nei limiti dell’altro un’opportunità per se stesso: Renzi gli deve la vita ché il Pd lo aveva mandato per una volta in fuorigioco relegandolo fuori dal campo elettorale che avrebbe significato rimanere fuori dal Parlamento.
Ma aveva ciò che serviva a Calenda ossia un simbolo che consentisse al leader di Azione di non dover raccogliere le firme dopo la rottura con Letta e soprattutto con il simbolo di +Europa detenuto da Bonino. E così pur essendogli superiore per tattica e visione di gioco, Matteo ha offerto a Carlo di essere il capitano della squadra. Carlo pur sapendo che imbarcare Renzi vuol dire alienarsi diverse simpatie l’ha preso a bordo sulla scialuppa del terzo polo su cui è riuscito a imbarcare anche pezzi di argenteria di Forza Italia come Gelmini e soprattutto Carfagna, ma con la promessa che sarà solo il suo il nome sulla scheda scritto in grande. Solo questo basta per pronosticare con certezza che il film post elettorale sarà denso di colpi di scena e di testa. Insomma: popcorn. A partire dal risultato che verrà scritto dalle regole del Rosatellum, la legge elettorale ideata dal renziano Ettore Rosato sistema micidiale e per certi versi diabolico. Favorisce chi gioca in coalizione, ma in questa tornata, dovrà soprattutto stabilire se il tandem solitario Renzi Calenda ha più favorito il centrodestra o ha più favorito il centrosinistra drenando voti all’uno o all’altro campo con tutto quello che questo comporta per le alchimie per il dopo in vista delle alleanze possibili.
Ma il Rosatellum, con cui si attribuisce un terzo dei voti con l’uninominale e il resto con il proporzionale determinerà non solo i rapporti di forza tra gli schieramenti e dentro le coalizioni quando ci sono, ma pure dentro gli stessi partiti. Con i seggi vinti nell’uninominale, quelli che scatteranno nei listini e l’incognita dei seggi attribuiti con l’effetto flipper, che non rende automatico capire dove i partiti vedranno scattare i seggi che spetterebbero loro se non dopo “aggiustamenti” tra circoscrizioni in base ai risultati ottenuti sul piano nazionale. Questo implica che a monte i partiti non possono sapere con assoluta certezza nemmeno quali sono i posti sicuri in lista. Per dire che i meccanismi bizzarri e bizzosi della legge elettorale contribuiranno non solo a determinare le tattiche post elettorali, ma pure la composizione della rappresentanza parlamentare dei singoli partiti. Tradotto rispetto al Terzo polo: quanti calendiani verranno eletti? E quanti renziani? La questione non è di piccolo conto per i caratteri e l’indole dei due campioncini che dicono con strategie diverse e solo in parte sovrapponibili di aver entrambi vinto le elezioni amministrative di giugno pure se non le hanno vinte affatto.
Alle amministrative di giugno Italia Viva ha sposato la linea delle alleanze variabili, ora con il centrosinistra, ora con il centrodestra. Spesso non presentando il simbolo. «Abbiamo dato un contributo importante a sindaci eletti molto bravi come Bucci (centrodestra) a Genova e Giordani (centrosinistra) a Padova. E quando siamo andati da soli, come a Carrara con Ferri o a Verona con Tosi, abbiamo fatto un risultato straordinario sfiorando il ballottaggio. Oggi abbiamo 97 sindaci in Italia, e credo che in questa tornata abbiamo conquistato più consiglieri che i Cinque Stelle», si è vantato Renzi rivendicando pure l’imbarazzante per lui tornata elettorale a Palermo. «Avevano schierato Faraone che si è poi ritirato perché, prima di scegliere uno di Italia Viva, il Pd ha preferito perdere con uno dei loro, Miceli, anziché vincere con uno dei nostri». Poi i renziani, nonostante l’inventore della ditta negasse di volerlo fare, sull’isola hanno appoggiato Roberto Lagalla sindaco caldeggiato da Marcello Dell’Utri e pure da Totò Cuffaro. E sono stati decisivi tanto da meritare un ingresso in giunta. Calenda ha scelto invece di correre pure lui in pochi comuni con candidati propri che hanno fatto bene (che comunque non ce l’hanno fatta) come all’Aquila e Palermo, mentre ad esempio a Catanzaro e Parma non ha presentato una sua lista, né il suo simbolo, ma ha appoggiato i due candidati arrivati terzi: ma l’effetto ottico di un successone elettorale che non c’è stato, l’ha convinto che come nei fatti è stato poteva dare le carte al tavolo con Letta che poi ha deciso di far saltare comunque per aria.
Per capire i caratteri di Calenda e Renzi è soprattutto significativo il caso Lucca dove entrambi hanno appoggiato Alberto Veronesi, che al primo turno ha raccolto il 3,65% grazie al sostegno di Italia Viva e Azione. Ma quando al ballottaggio Veronesi, figlio del compianto oncologo, ha scelto di appoggiare Mario Pardini, l’aspirante sindaco del centrodestra che nel frattempo si era apparentato con i neofascisti di Casapound e con i no green pass, sono volati gli stracci. Calenda si è dato alla rissa social. «Sembrava una persona seria, è un incapace», meritandosi una replica al vetriolo: «voleva piazzare un suo in giunta come al mercato dei capponi». Renzi si è semplicemente dato alla macchia.Prima ancora c’erano state Milano e Roma. A Milano Calenda e Renzi hanno costruito la lista “Riformisti per Sala” con l’accordo che chi avesse preso più voti avrebbe piazzato un assessore. Le cronache raccontano che ha vinto Lisa Noja che poi ha scelto di non entrare in giunta, dove è invece entrata l’altra renziana Alessia Cappello nonostante seconda fosse arrivata la calendiana Giulia Pastorella.
A Roma l’accordo tra Renzi e Calenda è durato quattro mesi: ed è finito con i renziani (che avevano appoggiato la corsa a sindaco del fondatore di Azione) usciti dal gruppo comune per il flirt estemporaneo dei calendiani con l’ex sindaca pentastellata. «Siamo costretti a separare le nostre strade nel Consiglio comunale di Roma perché – a differenza degli amici di Azione – restiamo fedeli ai valori espressi in campagna elettorale e non accettiamo accordi per aiutare la Raggi (per la presidenza della commissione Expo, ndr) a garantirsi un futuro, dopo aver creato così tanti problemi al presente di Roma». Un’apoteosi di contraddizioni zeppa di schermaglie social e di propositi scritti sulla sabbia. Che faranno sul serio lo sa solo il cielo. Per il resto, popcorn.