«No alla grande finanza internazionale!», gridava Giorgia Meloni nel famoso discorso di Marbella, sul palco del partito franchista Vox. Era il 14 giugno 2022 e la leader di Fratelli d’Italia poteva ancora permettersi i toni aggressivi della «underdog» d’opposizione. Quel giorno quasi nessuno avrebbe potuto credere che poco più di due anni dopo la leader di Fratelli d’Italia, da presidente del Consiglio in carica, avrebbe avviato una collaborazione – per di più senza indire nessuna gara pubblica – con Blackrock, il più potente fondo d’investimento di Wall Street e dell’intero pianeta. E invece…
Completando una giravolta a 180 gradi su se stessa, lo scorso 30 settembre la premier ha ricevuto a Palazzo Chigi Larry Fink, 71 anni, manager guru della finanza globalista, presidente e amministratore delegato di Blackrock, un colosso che gestisce asset per 10mila miliardi di dollari, quasi cinque volte il Pil dell’Italia.
La nota diramata dal Governo spiega che nell’incontro è stata concordata «la costituzione di un ristretto gruppo di lavoro, coordinato da Palazzo Chigi, dedicato all’attuazione dei progetti da sviluppare in collaborazione». Quali progetti? Il comunicato ufficiale non lo specifica, ma parla genericamente di almeno due ambiti di confronto. Da un lato Meloni – affiancata dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – ha illustrato a Fink «le opportunità di investimento nel campo delle infrastrutture nazionali di trasporto e in altri settori di natura strategica» (tradotto in altri termini, significa che il Governo chiede il soccorso di Blackrock per attuare il suo piano di privatizzazioni volto a racimolare in breve tempo qualche miliardo di euro). Dall’altro, la presidente del Consiglio e il manager hanno «discusso dei possibili investimenti del fondo Usa in Italia nell’ambito dello sviluppo di data center e delle correlate infrastrutture energetiche di supporto».
I data center – grandi edifici che ospitano computer, server e apparecchiature per la conservazione di dati in cloud – sono un’infrastruttura chiave per la transizione digitale. Nel mondo ce n’erano meno di 5mila nel 2022 e oggi sono già quasi 8mila.
Questa è una partita a cui Meloni si è molto dedicata negli ultimi mesi, scanditi da diversi colloqui faccia a faccia con i rappresentanti dei più importanti operatori del settore, da Google a Microsoft passando per OpenAi.
Si tratta, come è evidente, di player che hanno tutti in comune il passaporto a stelle e strisce. Così come è statunitense il fondo Kkr che quest’anno – per restare nel campo della connettività – ha comprato per 22 miliardi di euro la rete di Tim affiancato dal Ministero dell’Economia in qualità di azionista minore. E come dimenticare Elon Musk? Lo stravagante imprenditore pro-Trump avrebbe recentemente proposto all’amica Giorgia di collegare l’Italia ai satelliti della sua Starlink offrendo agli italiani – scrive La Repubblica – abbonamenti internet da 10 euro al mese.
Sul terreno del digitale, insomma, la “regina dei patrioti” sta tessendo una fitta rete di relazioni che parla la lingua del dollaro. Alla faccia della sovranità sui dati.
Rotta su Milano
Del resto, l’Italia rappresenta una prateria tutta da conquistare per chi costruisce data center. Oggi il grosso delle strutture a livello europeo si concentra intorno alle cinque città dell’acronimo “Flapd – Francoforte, Londra, Amsterdam, Parigi e Dublino – dove però il mercato è ormai quasi saturo. Il nostro Paese è ancora indietro, ma Milano guida il fronte degli emergenti (insieme a Madrid e Varsavia). Secondo l’Osservatorio Data Center del Politecnico, per il triennio 2023-2025 sono stati annunciati in Italia nuovi investimenti per circa 15 miliardi di euro e la potenza installata dovrebbe salire dai 430 megwatt del 2023 (+22% rispetto al 2022) fino a una forbice compresa tra i 590 e gli 825 megawatt.
«Se vuoi puntare sul digitale, e il mondo sta andando in quella direzione, devi avere un’infrastruttura che ti supporti», spiega a TPI Luca Dozio, direttore dell’Osservatorio. «Il data center consente di disporre dell’infrastruttura necessaria per svolgere qualsiasi servizio digitale, dall’intelligenza artificiale alla realtà aumentata, fino allo sviluppo di infrastrutture quantistiche. I data center sono il primo mattoncino per costruire un mercato digitale».
Poche settimane fa Microsoft ha annunciato un investimento da 4,3 miliardi di euro nel nostro Paese, puntando a stabilire nel Nord Italia una delle sue più grandi «Regioni Data Center» europee, nonché «un hub di dati chiave per il Mediterraneo e il Nord Africa». L’investimento include, inoltre, corsi di formazione sull’intelligenza artificiale che entro la fine del 2025 dovrebbero coinvolgere un milione di italiani.
Anche per il presidente di Microsoft, l’avvocato 65enne Brad Smith, si sono spalancate le porte di Palazzo Chigi. Durante il loro incontro, lo scorso 2 ottobre, la premier Meloni ha «espresso soddisfazione per l’importante investimento» della multinazionale di Redmond.
A giugno, in occasione del vertice del G7 a Borgo Egnazia, la presidente del Consiglio aveva stretto la mano anche all’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella, ospite di un evento collaterale sulle partnership per le infrastrutture globali insieme al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, ad alcuni fra i principali manager delle partecipate di Stato italiane e – rieccolo – al numero uno di Blackrock Larry Fink.
La questione energetica
All’inizio di quest’anno Blackrock ha acquistato per 12,5 miliardi di dollari Global Infrastructure Partners (Gip), fondo con sede a New York specializzato negli investimenti in infrastrutture che ha in portafoglio, tra i vari asset, il 50% di della società ferroviaria italiana Italo-Nuovo Trasporto Viaggiatori.
Lo scorso settembre Gip ha partecipato alla nascita di un’alleanza tra giganti nel settore dell’intelligenza artificiale. Il nuovo acronimo da tenere d’occhio è Gaiip, ovvero Global AI Infrastructure Investment Partnership: ne fanno parte, oltre a Gip, la stessa Blakrock, Microsoft e Mgx, società di investimenti nell’intelligenza artificiale legata al fondo sovrano di Abu Dhabi. Il capitale di partenza ammonta a 30 miliardi di dollari ma si punta a mobilitarne presto altri 100 per «investire nei data center e supportare le infrastrutture energetiche». Anzi, di più: la missione ultima «è risolvere il problema energetico alla base dell’intelligenza artificiale».
I data center, infatti, sono strutture estremamente energivore. Nel 2030 potrebbero arrivare ad assorbire il 9% della domanda di elettricità negli Stati Uniti e già oggi ne assorbono il 18% in Irlanda. Un problema in particolare per chi vuole investire in Italia, dove le bollette sono tra le più care d’Europa.
Nel tentativo di contenere i costi, diversi operatori del settore informatico in tutto il mondo stanno stringendo accordi di fornitura a lungo termine con compagnie energetiche: Microsoft, ad esempio, ha recentemente firmato un’intesa ventennale con Constellation Energy per riattivare la centrale nucleare dismessa di Three Mile Island, in Pennsylvania. E in un numero crescente di casi il calore prodotto dai data center viene riutilizzato come fonte di teleriscaldamento a beneficio di case e imprese.
Secondo indiscrezioni di stampa, in Italia Blackrock è interessato ad acquistare da Enel le vecchie centrali a carbone ormai in dismissione a Civitavecchia e Brindisi per insediarvi dei propri data center: oltre alla disponibilità di spazi enormi, questi impianti avrebbero il vantaggio di essere già connessi alla rete elettrica nazionale.
Prima di essere ricevuto dalla premier Meloni, il plenipotenziario del fondo Larry Fink avrebbe incontrato a Roma l’amministratore delegato di Enel, Flavio Cattaneo. Da quasi dieci anni Blackrock è il secondo azionista dell’azienda controllata dal Ministero dell’Economia, una partecipazione che si somma, fra le altre, a quelle in Eni, Leonardo, Unicredit, Intesa Sanpaolo e Rai Way.
L’I.A. della California
Il Governo italiano, intanto, è in contatto anche con altri big del mondo digitale. Nel corso della sua ultima visita a New York, Meloni ha avuto una serie di incontri riservati con Sam Altman, Sundar Pichai e Greg Brown, amministratori delegati rispettivamente di OpenAi, Google e Motorola. Con ciascuno dei tre – recita la nota di Palazzo Chigi – ha discusso di possibili investimenti nel nostro Paese e di «come incrementare la competitività italiana nei settori a più alta tecnologia». Secondo l’Ansa, che fa riferimento a fonti italiane, «i tre gruppi sono interessati ad investire nei data center e nelle startup italiane, alle collaborazioni con le eccellenze delle nostre università e a fornire know how sull’intelligenza artificiale alle imprese italiane».
Il più attivo al momento sembra essere OpenAi, società numero uno a livello mondiale nel campo della ricerca sull’intelligenza artificiale. Lo scorso 2 ottobre il player californiano – partecipato da Microsoft – ha siglato un memorandum d’intesa con Cdp Venture Capital, il fondo d’investimento a capitale interamente pubblico controllato da Cassa Depositi e Prestiti. L’accordo è «finalizzato a rafforzare il posizionamento dell’Italia nello sviluppo e nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale» attraverso supporto a startup, iniziative educative e collaborazioni commerciali.
Bandiera bianca
La campagna delle multinazionali yankee per piazzare i loro data center sul territorio italiano – con la benedizione del Governo – pone però un duplice ordine di problemi.
Il primo riguarda la protezione delle informazioni sensibili custodite in queste infrastrutture. Nel luglio 2023 è entrato vigore il Data Privacy Framework, un accordo tra la Commissione europea e il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti che punta a superare le tensioni tra Ue e Usa sul trasferimento di dati personali da una sponda all’altra dell’Atlantico. La disputa si è acuita in particolare in seguito al Cloud Act, una legge emanata da Washington nel 2018 in base alla quale le autorità federali statunitensi possono costringere le aziende tecnologiche a stelle e strisce a fornire qualsiasi dato su cui abbiano il controllo, ovunque nel mondo sia fisicamente ubicato il data center che lo custodisce.
La nuova intesa bilaterale raggiunta l’anno scorso con Bruxelles tenta di mitigare l’attrito fissando un livello comune di protezione dei dati e limitando le possibilità di accesso alle informazioni dei cittadini europei da parte del Governo americano. Ma sono in pochi a credere che funzionerà. «Non cambierà praticamente niente», ha sostenuto in un’intervista di qualche mese fa al Corriere della Sera Max Schrems, l’attivista austriaco che in passato ha già vinto due battaglie legali contro i tentativi di accordo sulla privacy tra Ue e Usa.
C’è poi l’altra grande questione che rimane aperta: quella che riguarda l’oligopolio tutto americano che vige nel mercato del tech. Come sottolinea parlando con TPI Giuseppe Attardi, già professore di Informatica all’Università di Pisa e coordinatore del dipartimento Cloud del Consorzio universitario Garr, in un’economia come quella attuale in cui tutto gira su servizi digitali, chi gestisce le infrastrutture cloud gode di un enorme vantaggio competitivo.
Attardi cita l’esempio di Amazon Web Services, la sussidiaria di Jeff Bezos che fornisce servizi di cloud computing: «Sfruttando i data center di sua proprietà – fa notare il professore – Amazon può far funzionare i propri servizi di e-commerce e video streaming senza pagare i costi dell’infrastruttura. Non solo: le altre aziende che devono utilizzare servizi informatici ma che non dispongono di data center saranno costrette ad affittare l’infrastruttura pagando un canone proprio ad Amazon o a un’altra Big Tech».
Anche Mario Draghi, nel suo recente rapporto sulla competitività dell’Ue, ha evidenziato l’enorme divario tecnologico tra Usa e Ue: «Tre hyperscaler statunitensi rappresentano da soli oltre il 65% del mercato cloud globale ed europeo», scrive l’ex premier italiano. Draghi esorta quindi l’Europa «a sviluppare il proprio settore tecnologico interno».
Per creare una filiera digitale, spiega il professor Attardi, bisogna fare una cosa semplice, «investire»: «Se per il software ci si può affidare a soluzioni open source che hanno dietro decine di migliaia di sviluppatori al mondo, per l’hardware, ossia i data center, bisogna stanziare ingenti somme. Si tratta di investimenti di medio-lungo termine di cui possono farsi carico i singoli Paesi oppure consorzi tra Paesi diversi, ma il ritorno sull’investimento è sicuro perché non c’è il pericolo che la gente non abbia bisogno di queste infrastrutture».
Nel 2019, su iniziativa di Germania e Francia, qualcosa si era mosso con l’istituzione di Gaia X, che nei piani originari avrebbe dovuto replicare nel campo del cloud l’esperienza – rivelatasi vincente – di Airbus nell’industria aeronautica: dar vita, cioè, a un colosso tutto Made in Europe. A distanza di cinque anni, però, il progetto sembra naufragato: Gaia X ha abbassato le pretese e si è ridotta a essere solo un’associazione che definisce degli standard di interoperabilità per servizi altrui. Non solo: tra i suoi membri ora ci sono persino le stesse Big Tech rispetto alle quali si sarebbe dovuto tentare di creare una concorrenza.
Così, anche nel settore digitale, la vecchia malandata Europa non solo rinuncia a competere con gli States ma stende pure i tappeti rossi ai titani Usa che vogliono investire qui. Vale anche per il Governo italiano: sovranisti sì, ma vuoi mettere quanto ne sanno gli americani?
Leggi l'articolo originale su TPI.it