«Noi non abbiamo costruito una macchina del fango ma l’abbiamo subita». In un’ora e mezza di accuse pesantissime alla Procura della Repubblica di Firenze, di attacchi frontali che hanno ben pochi precedenti, alla luce delle novantamila pagine di atti appena depositate alla chiusura delle indagini preliminari sulla Fondazione Open, il mese scorso dal palco della Leopolda l’ex premier Matteo Renzi è tornato a indossare i panni della vittima della Bestia di Matteo Salvini e del sistema social del Movimento 5 Stelle, puntando il dito sull’ex guru del leader della Lega, Luca Morisi, e sullo spin doctor pentastellato Rocco Casalino.
Da quell’ex stazione ferroviaria fiorentina che, senza troppe fermate intermedie, nel 2014 lo ha portato dritto dritto a Palazzo Chigi, è tornato ad arringare la folla, cercando per l’ennesima volta di ritagliarsi uno spazio di potere nell’agone politico nazionale, dopo essere passato da oltre il 40% alle europee di sette anni fa con il Pd all’attuale 2% della sua Italia Viva, facendo attenzione a glissare proprio su quella politica a colpi di post che anche per lui sembra invece, soprattutto dal referendum costituzionale del 2016 alle politiche del 2018, fosse diventata un’ossessione.
Ma proprio dalle carte di Open emerge invece che anche l’ex rottamatore e i cosiddetti renziani avrebbero messo su quella che l’amico imprenditore Marco Carrai definì in una chat una dark-room, con gli obiettivi di imporsi tra i dem, convincere gli italiani ad abbracciare il progetto del Giglio Magico e combattere i grillini. Tutto a colpi di troll, boot, profili fake e anche in questo caso in larghissima parte a spese di Open, arrivando a costare 330mila euro al mese. Abbastanza da far analizzare al procuratore aggiunto Luca Turco e al sostituto Antonino Nastasi le strategie web renziane al fine di confermare l’ipotesi che, come sostengono i due magistrati, la Fondazione fosse un’articolazione di partito e abbia dunque ricevuto finanziamenti in maniera illecita…
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