Senza tregua. La guerra tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni continua e deflagra, allargando il suo strascico di veleni oltre i confini dell’Italia, dopo le rivelazioni del leader azzurro sulle corrispondenze “affettuose” con Vladimir Putin, e dopo il rilancio sui ministeri nella riunione di martedì ai gruppi. Aumentano dunque l’intensità e le implicazioni politiche di questa guerriglia mediatica, e i dissidi rischiano di compromettere il prossimo governo nella culla: è la forza devastante del “fuoco amico”.
È un conflitto – quello tra Berlusconi e Giorgia Meloni – fatto di strappi e ricuciture (come quello di martedì), ma la lacerazione profonda e strutturale nel rapporto di fiducia tra alleati, per quanto ricomponibile, non è sanabile. Anche se le consultazioni possono unire di nuovo il centrodestra (nell’indicazione comune di un presidente del Consiglio), la politica divide i due leader sulla linea tracciata dallo scontro sui ministeri e nel tema cruciale dei rapporti di forza: giustizia, conflitto di interessi e politica estera restano temi aperti e controversiali, anche e soprattutto in prospettiva (con Berlusconi angosciato dalla sentenza che lo attende nel processo Ruby ter).
Ma quand’è che “il Cavaliere” è diventato “Sultano”? E quando il Sultano è entrato in conflitto con la “Sorella d’Italia”? Nessuno di questi strappi è avvenuto nei tempi che tutti pensano di conoscere. La storia della guerra che sta terremotando il governo (prima ancora di nascere), è molto più antica di quanto sembri. È iniziata quando – come racconteremo tra breve – An confluiva con Forza Italia nel Pdl.
Ma anche la storia pionieristica del berlusconismo, secoli prima del “caso Ronzulli”, non era segnata (come oggi) dal carisma di amazzoni rocciose e divisive. Forza Italia nasceva nel 1994, declinandosi tutta al maschile, intorno a tre centri orbitali: Arcore, con una corte di consiglieri fidatissimi smaliziati e scaltri (tutti uomini) che andavano da Maurizio Costanzo a Giuliano Ferrara (che nelle ultime elezioni – per inciso – ha dichiarato di votare Pd). L’ex direttore de Il Foglio fu il primo indimenticabile portavoce di Berlusconi a Palazzo Chigi. Mentre i due volti-simbolo delle gerarchie arcoriane erano quelli di Marcello Dell’Utri e di Cesare Previti (su cui Oscar Luigi Scalfaro – ricorsi della storia – mise un veto, impedendogli di essere nominato ministro della Giustizia).
Ed erano tutti maschi, ovviamente, anche gli uomini di Publitalia, la prima ossatura del partito (da Enzo Ghigo a Gianfranco Micciché), e, infine, erano uomini tutti i famosi “professori azzurri”, il fiore all’occhiello, la bandiera della prima identità “liberale” del partito: oggi nessuno più si ricorda di Lucio Colletti, di Sergio Ricossa, di Giuliano Urbani, di Antonio Martino (e persino dell’ultimo superstite, Marcello Pera, forse perché è appena risorto, eletto a Sassari in quota-Meloni). Era una Forza Italia che nel leggendario “kit del candidato”, voluto e curato nei dettagli da Berlusconi in persona, aveva la famosa cravatta Regimental tricolore, la spilla da giacca con il simbolo azzurro, e il cd con l’inno scritto dal maestro Augusto Martelli (quello delle sigle di Canale5) e che (idealmente) era accompagnato dalle celebri “mentine per l’alito”, consigliate a chi correva per le politiche in un celebre discorso: «Non c’è nulla di più respingente – ammoniva serio Berlusconi – di un uomo che non si curi dell’alitosi. Asciugatevi la mano prima di stringerla, e quando uscite dal bagno pulite la tavoletta del water anche se non l’avete bagnata! Chi entra dopo di voi vi giudicherà per quel che trova». Cult.
Un altro secolo. Berlusconi era “il Cavaliere nero” anche all’opposizione, quando durante la celebre “traversata del deserto” era accompagnato – sulla “Nave azzurra” – dal fido portavoce (maschio) Paolo Bonaiuti, che finì persino con un braccio al collo per una frattura. La foto simbolo dell’estate, scattata nel parco della villa sarda della Certosa (qualcuno sospettava che nella sua perfezione formale fosse addirittura un finto scatto rubato) ritraeva il Cavaliere in tenuta bianca e pantaloncini da tennis seguito, come, da un plotone, dai suoi amici più stretti: Gianni Letta, Adriano Galliani e Fedele Confalonieri. Il cerchio più mistico del berlusconismo.
Ed era tutto maschile anche il vertice del partito nella sua era più matura, con Sandro Bondi che dormiva ad Arcore in una stanzetta quasi “monacale” e scriveva biografie sulle vite dei santi, a partire da Savonarola (suo “concittadino” di Fivizzano). Fabrizio Cicchitto guidava il partito e scriveva pensosi saggi di politologia sulla prima Repubblica. Quando Forza Italia divenne più democristiana (che liberale) assurse alla gloria di Arcore il plenipotenziario Claudio Scajola. Uomo pure lui.
Il grande big bang che mise fine a questo sistema aristotelico tutto al maschile fu – come è noto – il tormentato divorzio a rate da Veronica Lario. Maria Latella scrisse con la moglie di Berlusconi un libro (“Tendenza Veronica”, Rizzoli) che pareva una manifesto politico, ma in realtà che era il segnale premonitore dello scandalo, il prologo di una deflagrazione epocale. La Certosa prese a popolarsi di figure assai diverse rispetto agli standard noti, l’alchimia basica del partito si virava di rosa insieme con i colori della Corte. Berlusconi veniva intercettato in una frase diventata subito massima: «La patonza deve girare». Ma il mondo ancora non si era accorto di nulla. Ecco perché è curioso che il primo scandalo rivelatore, nell’estate del 2000 sia scoppiato per un banale errore di identificazione.
Uno dei più grandi fotoreporter italiani, Massimo Sestini, nel pieno dell’estate, lavorando per il Corriere della sera di Ferruccio De Bortoli, riuscì a catturare una foto che fece avvampare di curiosità i media e il pubblico. C’era di nuovo il Cavaliere, nel parco della sua villa, vestito ancora una volta di bianco. Ma al suo seguito stavolta c’era una bella e prosperosa fanciulla. Una donna. La foto finì sulla prima pagina del quotidiano milanese, e la fanciulla misteriosa, non ancora identificata, fu ribattezzata “la dama bianca” (come quelle frequentate, in ben altre condizioni, da Fausto Coppi e Gigi Riva). Vedendo la foto Beppe Giulietti, un deputato dell’Ulivo che dava battaglia in Commissione di Vigilanza, fece un salto sulla sedia e vergò un comunicato di fuoco: «Cosa ci fa nella villa del Cavaliere una ex di Berlusconi che Il Cavaliere ha piazzato in Rai? Quello di Debora Bergamini – tuonò – un gravissimo conflitto di interessi!». Il bello è che si sbagliava. La Bergamini ebbe buon gioco a chiarire che non si trattava di lei, dimostrando che si trovava in vacanza con la sua famiglia e che non era mai stata ad Arcore. Il giallo si infittì: «Ma allora chi è quella bella dama?».
La “dama bianca” risultò essere una ragazza in gamba, che rispondeva al nome di Francesca Romana Impiglia. Era figlia di un dirigente peroferico di Forza Italia. Berlusconi l’aveva adocchiata nel porto di Ancona durante lo sbarco elettorale della “Nave azzurra”. Tre mesi dopo la Impiglia si era ritrovata nel vertice dei giovani di Forza Italia, diretti all’epoca da Simone Baldelli. Dopo sarebbe diventata una giornalista Mediaset. Poteva sembrare un episodio, invece era solo la prima di una lunga serie.
Poco dopo esplose lo scandalo della “Vergine di Casoria” con la partecipazione (in elicottero) di un Berlusconi premier alla festa di compleanno di Noemi Letizia, una ragazza napoletana invitata ad Arcore a 17 anni. Conosciuta – e qui il mistero si infittiva – dopo essere stata scelta in una particolare selezione, dal direttore del Tg4, Emilio Fede.
Lo scandalo fu deflagrante. I vertici del partito erano scalati da donne grintose come Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna, le cene private e quelle politiche diventavano “cene eleganti”. Una sera, imbarazzando la futura ministra, Berlusconi creò clamore dicendole in pubblico di fronte a testimoni: «Mara è così bella che se potessi la sposerei». Fu lo scandalo Noemi, però, a far esplodere l’ira di Veronica Lario in una celebre intervista a Dario Cresto Dina di La Repubblica: «Va con le minorenni, è malato». E nell’aprile del 2009 Veronica scriveva a La Repubblica: «Quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore. E tutto in nome del potere, per rincorrere successo e notorietà». E infine: «Le vergini sono date in pasto al drago».
Il mondo della politica (e gli italiani) scoprirono quello che fino ad allora era rimasto il segreto di una cerchia ristretta: esisteva un gruppo di ragazze che partecipavano a eventi privati del Cavaliere, la villa di Arcore per la penna di Marco Travaglio divenne “La Villa di Hardcore”, e i dettagli che emergevano dalle inchieste (giornalistiche, ma anche giudiziarie) erano sconvolgenti: riti, ciondoli, mascherate sexy, serate con giovani donne vestite da poliziotte, o infermiere, una ex igienista dentale, consigliera regionale della Lombardia (eletta ovviamente in Forza Italia) Nicole Minetti, che si alternava nel ruolo di animatrice, protagonista e organizzatrice delle serate notturne. A pianificare la logistica di questi incontri c’era anche una giovane ex infermiera, Licia Ronzulli (la donna per cui Berlusconi chiedeva fino a ieri il ministero della Sanità).
La Ronzulli guidava la Minetti e le altre nella logistica complessa delle serate con il Cavaliere: «Non c’è problema di parcheggio, puoi entrare dentro con la macchina». Berlusconi passava da leader a Sultano, da Cavaliere a “Papi” (un nomignolo dato dalle Olgettine). Lo scandalo divenne internazionale: nella villa, assediata dagli obiettivi, vennero immortalati finti matrimoni (una passione) e un fotografo sardo, Antonello Zappadu, sorprese persino l’ex primo ministro della Repubblica Ceca, Mirek Topolanek, nudo in giardino, con quel che aveva di più caro ritto e in bella evidenza. La foto fece il giro del mondo. Così come la notizia che in una drammatica serata Berlusconi aveva telefonato da premier perché una giovane marocchina, ex ballerina di night club (all’epoca minorenne), Karima El Mahroug, nota con il nome d’arte di “Ruby Rubacuori” venisse liberata da una cella.
Venne spacciata per “nipote di Moubarak”, persino in Parlamento anche da Elisabetta Casellati (e la Meloni, anche per questo non la vuole alla Giustizia). L’ultima scoperta furono le “Olgettine”. Ovvero la variopinta Corte di ragazze che partecipava alle feste, e prendeva il suo nome dalla “Dimora Olgettina”, un residence al 65 dell’omonima via, a Milano. Abitavano lì le future protagoniste del processo Ruby Ter: la Minetti, ovviamente, ma anche la bella Marysthelle Polanco e Barbara Guerra (la “poliziotta” delle cene), rinviate a giudizio insieme a Barbara Faggioli, Alessandra Sorcinelli, Iris Berardi, le gemelle Imma ed Eleonora De Vivo e Lisa Barizonte. Mentre Berlusconi fondava una “scuola di politica” per le sue Olgettine, veniva accusato di aver pagato per fare sesso con Ruby tra febbraio e maggio 2010. E poi di aver pagato per il silenzio delle Olgettine.
Cosa c’entra tutto questo con La Meloni? Molto. La nascita del partito unico nato dalla fusione tra Forza Italia e An aveva come conseguenza la fusione tra rispettivi i movimenti giovanili. E così il popolo degli “azzurrini” (contaminato dal sangue rosa delle nuove “reclute” politiche), si era ritrovato sotto lo stesso tetto, con “la comunità” dei militanti post-missini. Mai un conflitto antropologico era stato così netto: da un lato ragazze che passavano giornate dall’estetista, dall’altro giovani militanti che passavano le giornate in sezione, o nei consigli municipali, da un lato borsette e tacchi, dall’altro camice jeans e scarpe da ginnastica. Da un lato il mito terremo di Papi, dall’altro quello dei militanti caduti degli anni di piombo.
La Meloni di quei giovani cresciuti a pane e politica era leader indiscussa, lei stessa diversissima dalle sue nuove reclute azzurre: ex capa studentesca, ex consigliera regionale, eletta a Viterbo in un congresso all’ultimo voto, la più giovane vicepresidente della Camera, con il Cavaliere che faticava a ricordare il suo nome nella foto di nascita Pdl: «Dov’è la piccola? Dov’è la piccola?». Qualcuno mise in rete il video sottotitolato con una maliziosa taroccatura in «Dov’è la zoccola?». Ma a ben vedere era più offensivo anche quel diminutivo. La Meloni era diventata il ministro più giovane della Repubblica (battendo il record di Enrico Letta) e il Cavaliere non ricordava il suo nome.
Quando era scoppiato lo scandalo Ruby, la presidente di Azione Giovani era stata tra i pochi a parlare: «Non mi piace quel Berlusconi», disse in una celebre intervista. E due anni fa spiegò a Rete4: «Io a Berlusconi non devo nulla». Facendo arrabbiare Silvio.
Ed ecco il punto che spiega cosa sta accadendo oggi, a dodici anni di distanza. Azione giovani, per la Meloni è stata una scelta di vita, la base di una carriera, l’incubatore di un futuro partito. Se prendi l’organigramma di Fdi, oggi, scopri che è perfettamente sovrapponibile a quello dell’organizzazione giovanile di undici anni fa: il numero due, Giovanni Donzelli, era presidente di Azione Universitaria, il responsabile cultura, Federico Mollicone, era l’organizzatore della storica sezione di Colle Oppio, la deputata, e poi vicesindaco di Palermo, Carolina Varchi, era la responsabile dei giovani siciliani (che in una festa di Atreju bacchettò un Berlusconi in camicia nera: «Ma davvero lei vuole spiegare a noi l’anticominismo?»), Augusta Montaruli, oggi considerata possibile ministra delle Pari Opportunità, era responsabile degli universitari di Torino, il deputato e responsabile Giustizia Andrea Delmastro era il leader della Destra sociale a Biella, e il capodelegazione in Europa, Carlo Fidanza, era l’avversario della Meloni (sconfitto nel congresso di Viterbo e subito ripescato).
Ma se la Meloni è l’ultima delle giovani missine, Licia Ronzulli è l’ultima delle berlusconine. Ha fatto fuori tutte e tutti (Sestino Giacomini, Andrea Ruggeri…) quelli che erano rimasti intorno al Cavaliere. E persino le due amazzoni precedenti, Francesca Pascale e Maria Rosaria Rossi. Chi è stato ad Arcore dice che neanche Gianni Letta riusciva più a farsi passare Silvio al telefono. Che la Rassegna stampa della Villa, che legge Berlusconi, non contiene gli articoli sconvenienti. Dopo la prima polemica i figli del Cavaliere si sono precipitati per sincerarsi delle condizioni del padre.
Adesso, con i nuovi rapporti di Forza disegnati dalle elezioni, Fratelli d’Italia vale due volte e mezzo Forza Italia. L’alternativa di Berlusconi, se prosegue la guerra, è ardua: o il nuovo governo nasce senza di lui (e si rischia il voto). Oppure nasce con gli azzurri ridimensionati: i figli di Atreju contro le figlie di Papi. Undici anni dopo, per chiudere un conto in sospeso.
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