Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Politica
  • Home » Politica

    Autonomia differenziata: ecco l’impatto su sanità, istruzione, assistenza anziani

    Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali e autore della contestata riforma. Credit: AGF
    Di Redazione TPI
    Pubblicato il 23 Lug. 2024 alle 17:50

    Nelle scorse settimane è iniziata la raccolta firme necessaria a sostenere la proposta di referendum abrogativo che punta a cancellare sul nascere la riforma dell’Autonomia differenziata recentemente divenuta legge.

    Il Forum Disuguaglianze e Diversità – che figura tra le organizzazioni promotrici della campagna referendaria – ha pubblicato un approfondito studio in cui analizza il possibile impatto della riforma su tre settori particolarmente “sensibili”: sanità, istruzione e assistenza agli anziani non autosufficienti.

    L’indagine è stata curata da Mariella Volpe, economista e membro dell’Assemblea del Forum Disuguaglianze e Diversità.

    L’impatto dell’Autonomia differenziata sulla Sanità

    Il rapporto tra spesa sanitaria e Pil – sottolinea lo studio – in Italia è del 6,8% (dati 2022), inferiore di 0,3 punti percentuali sia rispetto alla media Ocse (7,1%) che alla media europea (7,1%). Per allinearci a Francia (dove il rapporto è del 10%) e a Germania (10,9%) occorrerebbero circa 40 miliardi di euro all’anno.

    Secondo l’analisi del Forum DD, lo stanziamento aggiuntivo previsto dal Governo per il 2024 (+0,9%, equivalente a 3 miliardi) non è sufficiente a compensare l’incremento dei prezzi (+2,4%): in base alle stime dello Svimez, in particolare, la spesa sanitaria reale quest’anno si ridurrà di circa 30 euro pro-capite rispetto al 2023.

    La situazione di generale debolezza del Sistema sanitario nazionale – si legge nella ricerca – si è tradotta in un aumento delle disuguaglianze territoriali. Secondo i dati dei Conti Pubblici territoriali, a fronte di una media nazionale di 2.140 euro pro-capite, la spesa corrente più bassa si registra in Calabria (1.748 euro), Campania (1.818 euro), Basilicata (1.941 euro) e Puglia (1.978 euro).

    Ma i problemi non riguardano soltanto chi abita nel Sud Italia. Rispetto alla sanità, le regioni settentrionali corrono gli stessi rischi di desertificazione sanitaria di quelle meridionali, quasi tutte estremamente deboli nell’assistenza territoriale.

    L’indagine svolta dall’economista Volpe ricorda i dati del Rapporto Ahead di Cittadinanzattiva, secondo cui ad esempio Asti e provincia contano meno pediatri per numero di bambini rispetto alla media nazionale (ogni professionista segue 1.813 bambini fra gli 0 e i 15 anni, mentre la media nazionale è di 1/1.061 e la normativa prevede circa 1 pediatra per 800 bambini).

    “Con l’Autonomia differenziata – si legge nel rapporto del Forum – la Lombardia potrebbe pagare di più i propri medici, e se il Piemonte, più povero, non riuscisse a emulare la Lombardia si troverebbe a dover fronteggiare un’ulteriore carenza di medici”.

    E ancora: “L’Autonomia differenziata in sanità deresponsabilizza lo Stato dal garantire i diritti di un fondamentale servizio universale, dal sentirsi investito e rispondere del principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute”.

    “Essendo stata disegnata dalla legge approvata, in modo tale da non garantire il superamento dei divari esistenti e anzi rischiando di inchiodarli alla spesa storica”, l’’Autonomia differenziata “consegna quei divari a permanere e probabilmente ampliarsi nel tempo”.

    “Ma c’è di più”, sottolinea Volpe: “Non prevedendo alcun criterio né alcuna condizionalità nell’accettare la proposta regionale di autonomia differenziata, la legge condanna lo Stato centrale a rinunziare a svolgere alcuna funzione nella riduzione dei divari interni alla stessa Regione richiedente”.

    L’impatto dell’Autonomia differenziata sull’istruzione

    Nello studio pubblicato dal Forum Disuguaglianze e Diversità si rileva come il “progressivo disinvestimento dalla filiera dell’istruzione” abbia interessato soprattutto le regioni del Sud: tra il 2008 e il 2020, in particolare, la spesa complessiva in termini reali si è ridotta del 19,5% al Sud, oltre 8 punti percentuali in più del Centro-Nord (-11,2%). Ancora più marcato il differenziale a svantaggio del Sud nel calo della spesa per investimenti, calati di quasi un terzo contro “solo” il 23% nel resto del Paese

    Se ci si limita al settore delle scuole statali, a fronte di una media italiana di 6.240 euro pro-capite, lo studente del Mezzogiorno ne riceve 6.025, mentre quello del Centro Nord 6.395. E questo avviene nonostante la diversa anzianità del corpo docente, molto più elevata nelle regioni del Mezzogiorno, influenzi il costo stipendiale medio.

    Secondo i dati dell’Anagrafe dell’edilizia scolastica del Ministero dell’Istruzione, nel mondo della scuola primaria solo il 21,2% degli allievi nel Mezzogiorno frequenta un istituto dotato di una mensa, a fronte del 53,5% al Centro-Nord. Solo un allievo su tre (33,8%) frequenta una scuola primaria dotata di palestra nel Mezzogiorno, mentre nel Centro-Nord il dato è del 45,8%.

    Con l’Autonomia differenziata, conclude lo studio del Forum DD, “sul fronte dell’istruzione, genitori e figli e figlie che cambiano residenza si troverebbero di fronte ad assetti dell’istruzione assai diversi”.

    “Regionalizzare la scuola infatti disgrega il sistema nazionale dell’istruzione pervenendo a programmi diversi nei diversi territori, e a sistemi diversi di reclutamento degli insegnanti, facendo perdere alla scuola la sua funzione principale che è quella di generare uguaglianza”.

    L’impatto dell’Autonomia differenziata sull’assistenza agli anziani non autosufficienti

    In Italia, nel 2021, la fascia delle persone che superano i 65 anni di età rappresenta il 24% della popolazione totale. Il Centro e il Nord risultano essere le zone con la maggiore incidenza di anziani (entrambe poco sopra al 24%) rispetto a Sud (22%) e Isole (23%).

    La domanda di assistenza è fortemente cresciuta negli anni, soprattutto dopo la fase pandemica. Dal 2017 al 2022 siamo passati dalle 296mila persone con oltre 65 anni residenti in Rsa alle 362mila, con un boom proprio negli ultimi due anni post-pandemia.

    Si evidenziano tuttavia le forti disuguaglianze geografiche che tradizionalmente caratterizzano l’offerta assistenziale agli anziani non autosufficienti nel nostro Paese: ancora una volta esse sono interne a ogni Regione e area urbane, e fra le aree interne e le aree urbane, ma sono particolarmente misurabili e visibili fra Regioni.

    Nelle residenze del Nord-Est il tasso di ricovero si attesta ai livelli più alti con 28 ospiti per 1.000 anziani residenti; nelle regioni del Mezzogiorno su 1.000 anziani residenti, solo 8 sono ospiti delle strutture residenziali (dati Istat).

    In Italia da oltre vent’anni si attende la riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti. Negli altri Paesi europei tale intervento normativo è già avvenuto: nel 1994 in Germania, nel 2002 in Francia, nel 2006 in Portogallo e Spagna, nel 2011 in Austria.

    Con il Pnrr si è riconosciuta l’urgenza di procedere a una riforma, finché il 23 marzo 2023 è stata finalmente approvata una legge-delega al Governo. Purtroppo però l’attesa di una riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti è stata per ora disattesa.

    Nella versione definitiva del decreto attuativo, infatti, sono stanziati 500 milioni di euro per il biennio 2025-2026, dedicati alla sperimentazione della prestazione universale, ma non vi sono risorse aggiuntive di natura strutturale. Inoltre è stata cancellata la prevista riforma dei servizi domiciliari, non ci sono indicazioni sostanziali (se non il rimando a un successivo ulteriore decreto, relativamente ai servizi residenziali) né ci sono indicazioni circa la riforma dell’indennità di accompagnamento.

    “Rispetto all’assistenza agli anziani non autosufficienti – si legge nello studio del Forum DD – l’Autonomia differenziata priva l’Italia di ogni speranza di una riforma unitaria sul settore, attesa da 20 anni, in un Paese che oggi investe molto meno di tanti altri Paesi europei per il long term care: il 10,1% dell’intera spesa sanitaria pubblica a fronte del 26,3% della Svezia, del 24,8% dell’Olanda, del 24,3% del Belgio, del 18,2% nel Regno Unito e del 16,3% in Germania”.

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version