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    La grande scalata di Bonaccini per mettere le mani sul Pd (e far rientrare Renzi)

    Illustrazione di Emanuele Fucecchi
    Di Luca Telese
    Pubblicato il 11 Set. 2020 alle 16:29

    C’è un piano anti-Zingaretti nel Pd. Nella trappola che si sta preparando per dopo le regionali nel partito cardine dell’alleanza giallorossa si annida un paradosso quasi grottesco: quelli che vorrebbero sostituire Nicola Zingaretti alla guida del Pd, per restaurare un renzismo senza Renzi, sperano di poter far leva su una eventuale sconfitta in Toscana. Dove però il candidato (persona degnissima ma dal punto di vista elettorale un “brocco”) lo ha scelto proprio Matteo Renzi. Quindi chi gioca la partita (per ora coperta) della detronizzazione, si prepara a contestare il segretario dopo il voto, sulla base del risultato delle regionali, proprio quello dove, per ovvi motivi, e nel bene e nel male, Zingaretti non ha potuto scegliere, e si è ritrovato in campo le eredità del passato.

    In Campania il mitico Vincenzo De Luca, in Puglia il coriaceo Michele Emiliano, in Toscana il gassoso Eugenio Giani, sessantunenne, ex socialista, ex presidente del Consiglio regionale, uno di cui si diceva – per magnificare la sua dote più importante – che poteva menar vanto di aver girato tutti i comuni della Toscana. Noi auguriamo al simpatico Eugenio di portare a casa comunque la pelle, ma forse, per combattere la pepatissima amazzone salviniana, Susanna Ceccardi, serviva qualcosa di più vitale, di un “candidato Alpitour”.

    Tuttavia, all’epoca di quella designazione, Renzi era ancora dentro il Pd, aveva già programmato la sua scissione del micron, e nella sua regione si era apparecchiato la tavola per realizzare quello che aveva in testa: un candidato teleguidato da lui, la prima prima prova elettorale del suo partito bonsai con un bel risultato in casa, che potesse diventare la piattaforma per lanciare una sua Opa sulla sinistra, poggiata sul sogni di un granducato leopoldino replicabile su scala nazionale.

    Lo aveva anche enunciato, come è noto, il buon Matteo: “Faremo al PD quello che Macron ha fatto ai socialisti francesi”. Come sia andata nella realtà è noto: Italia Viva annaspa nei sondaggi, secondo tutti gli istituti demoscopici, la Toscana è stata dichiarata contendibile nella sfida con la Lega, e la fotografia migliore di questa ambizione, ridicolizzata nella realtà, furoreggia nel web sotto la forma genialmente sintetica di una vignetta di Osho. Nella foto ci sono Matteo Salvini e Maria Elena Boschi, con lui che dice a lei: “Mó vojo vedé, se vince er NO, se lasciano la politica, come amo fatto io e te!”. Sublime.

    Credit: “Le più belle frasi di Osho” (pagina Facebook)

    Ma torniamo alle regionali a cui si vorrebbe appendere lo scalpo di Zingaretti. Nelle Marche, già a destra da anni (elettoralmente), e in Puglia il segretario ha provato in ogni modo a fare l’unica cosa che poteva impedire una sconfitta: una alleanza con il M5s. Non ci è riuscito, ma ha fatto bene, perché altro non si poteva tentare.

    Per ottenere lo stesso risultato, in Liguria, ha dovuto spianare con i cingoli una patetica insurrezione di cacicchi locali (in quel caso la direzione del Pd genovese) che si era ribellata alla candidatura di Ferruccio Sansa. E ovviamente anche in quel caso Zingaretti ha fatto bene a imporre il nome del giornalista, anche se tutti questi interessati e suicidi tira e molla, hanno fatto perdere al candidato unitario del tempo prezioso, in una sfida che era già in salita.

    In Puglia, dove Emiliano può contare sulla sua istintiva vocazione di politicone territoriale, Renzi ha animato contro di lui un’altra candidatura Bonsai di disturbo (quella del povero Ivan Scalfarotto, vedi il suo manifesto pop da rockstar avvizzita) con l’unico, deliberato obiettivo di far perdere la sua coalizione, esattamente come ha fatto anche in Liguria.

    Ovunque i Renziani sono ovunque il miglior certificato di assicurazione elettorale della destra, in nome della sempre attuale sintonia tra “i due Mattei”, che si dividono la mission così: uno dei due (quello leghista) prova a far vincere, mente l’altro (quello a fine carriera) prova a far perdere. C’è una bella differenza. Ma siccome, malgrado queste attività sottocoperta, Italia Viva sembra comunque nata già cadavere nella culla, ecco il piano d’emergenza della carovana acchiappa-poltrone: rimuovere Zingaretti, rientrare dentro il Pd con una nuova operazione trasformistica, spostare l’asse del partito al centro, insediare al Nazareno Stefano Bonaccini (o chi per lui), mascherare questa operazione con un po’ di ammuina (magari offrendo un biglietto in tribuna anche ad Articolo 21, Speranza e Bersani per bilanciare i pesi sulle ali) e tornare a vivere sulla groppa degli elettori democratici.

    L’unica domanda che va fatta a Bonaccini non è se sia disposto a candidarsi o meno a leader (è troppo intelligente per lasciarselo scappare), ma se pensa che sarebbe utile e necessario un riassorbimento di Italia Viva dentro al partito (sarebbe interessante la risposta).

    L’unico rimprovero che si può muovere a Zingaretti è di aver sacrificato alcune sue legittime ambizioni per tenere insieme la casa, le spinte centrifughe e scissionistiche che in tutti questi anni sono state la continua maledizione della sinistra. Avrebbe potuto scacciare Renzi dal partito, e reprimere la sua operazione bonsai in Toscana, ma non lo ha fatto perché voleva portare il partito unito alle europee. Poteva decapitare i capogruppo (ex renziani) ma non voleva apparire, come i suoi predecessori, un leader che pensa unicamente a piazzare i suoi soldatini ovunque. Con Graziano Del Rio questa scelta si è rivelata azzeccata, con il suo collega del Senato no (ma sono dettagli).

    Tuttavia adesso il tempo è scaduto, e il Pd si ritrova davanti solo due opzioni: difenderei il governo Conte che ha fatto nascere lui, continuare a lavorare nel faticoso cantiere dell’alleanza giallorossa, finire la legislatura, eleggere un presidente buono come Sergio Mattarella (magari proprio Sergio Mattarella), oppure lasciare via libera a Salvini e consegnargli le chiavi di Palazzo Chigi. Così i due Mattei potranno ridividersi il campo secondo lo schema di cui sopra: uno si prende l’Italia, e l’altro può trovare una nuova poltrona per la mitica Meb, e per il resto della compagnia cantante.

    Gli allegri devastatori della sinistra italiana – ormai invisi anche ai parenti più stretti – hanno ancora voglia di completare l’opera che Zingaretti aveva interrotto. Scorrerà del sangue, speriamo che non riescano nel loro piano.

    Leggi anche: La rivincita di Zingaretti, che resiste alle correnti del No e lancia il PDSÌ (di Luca Telese)

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