La mossa con cui stamattina si apre la partita per il Quirinale è un clamoroso colpo di pungiglione. Silvio Berlusconi lascia la partita, ma nel comunicato in cui spiega che rinuncia “per non dividere l’Italia”, annuncia anche un veto al trasloco di Mario Draghi da Palazzo Chigi al Colle: “Considero necessario che il governo Draghi completi la sua opera fino alla fine della legislatura per dare attuazione al PNRR”. Queste parole di sabato, condizionano anche la sfida di oggi, con il primo voto in Aula. Non essendoci un nome condiviso, i primi tre voti serviranno a “mappare” il reale peso delle coalizioni e dei loro candidati di bandiera. La fedeltà ai leader.
Non è dunque uno strappo da poco, quello del leader di Forza Italia. Perché senza dubbio Draghi è ancora un candidato importante, ma il no del Cavaliere conta, anche perché dietro di lui – meno visibile – si intravede e si nasconde anche il no di Matteo Salvini.
Il numero uno della Lega aveva una richiesta per il presidente del Consiglio, che considerava come la condizione necessaria per un sostegno forte nella partita del Quirinale. Salvini voleva la garanzia di poter essere di nuovo ministro (il suo sogno era tornare agli Interni) con una ipotesi che ha creato un immediato fuoco di sbarramento del Pd. E forse non è stato un atto di ingenuità, da parte di Salvini, quella esternazione, ma un gesto di astuzia politica. Ventilare questa possibilità di ritorno agli interni, infatti, significa porre una condizione che Enrico Letta non può accettare. E dunque potrebbe essere un altro modo per porre un veto a Draghi.
Ecco perché basta ripercorrere la dinamica di questo cortocircuito, per capire quanto sarà complessa – a partire da oggi – la partita dei giochi di sponda e la sfida dei veti incrociati sul nuovo inquilino del Quirinale.
Il punto politico vero, tuttavia è questo: dopo, e grazie allo strappo di Matteo Renzi, che ha rotto con il Pd con la caduta del governo giallorosso, il centrodestra ha raggiunto oggi (per la prima volta negli ultimi quattordici anni) la possibilità di designare un eletto della propria area. Perché, dunque, Salvini e Meloni dovrebbero mettersi nelle mani di un tecnico, o di un nome condiviso con i giallorossi? Dietro la partita del Quirinale, infatti, c’è anche la designazione di un nuovo presidente del Consiglio. Non solo quello che potrebbe essere incaricato ora, dopo le Quirinarie, ma soprattutto quello che gestirà l’Italia dopo le prossime politiche. Avere un “presidente amico” è il primo viatico per qualsiasi possibile carriera futura, e questo lo sanno benissimo, sia Salvini che Meloni.
Ma anche il presidente della Repubblica, chiunque esso sia, dovrà pagare un prezzo importante, in questa elezione. In un parlamento in cui uno su due degli attuali eletti, sa già che resterà fuori, la durata della legislatura diventa la più importante delle “promesse elettorali”: avrà più voti solo chi sarà in grado di garantire che non si vota.
Un bel paradosso.