Quando alcune settimane fa Joe Biden ha affermato che Putin è un «macellaio» che «non può restare al potere», non si è trattato secondo me di un inciampo lessicale: nel contesto della guerra in Ucraina, il presidente degli Stati Uniti ha effettivamente come obiettivo quello di sconfiggere il leader del Cremlino, o almeno di indebolirlo a tal punto da rendere problematica la sua stabilità al potere. Oltre alle parole di Biden, lo dimostra anche il fatto che Washington abbia autorizzato la fornitura agli ucraini non più solo di armi difensive, ma pure di carri armati, razzi per artiglieria, droni kamikaze: forse ciò significa che gli Stati Uniti adesso ritengono possibile una vittoria della guerra (laddove – sia chiaro – potrebbe essere considerata vittoria anche una spartizione del territorio ucraino in una porzione sotto il controllo russo e l’altra, che includerebbe Kiev, in mano agli occidentali).
Per far cadere Putin occorre stimolare coloro che fanno parte del suo entourage a fare una scelta di destituzione. Ma qui diventa fondamentale il fattore tempo. Come ha sottolineato anche il New York Times, infatti, asserragliare Mosca – da un lato con la guerra sul campo e dall’altro con le sanzioni economiche – potrebbe produrre l’effetto opposto di intensificare il nazionalismo russo e ricompattare l’opinione pubblica intorno a Putin, che usa già l’argomento vittimista dell’accerchiamento. E allora mi sembra che la via maestra per gli americani – la via strategica a loro funzionale – sia quella di una erosione di Putin nel tempo. Se la guerra viene lasciata decantare, se diventa lunga o addirittura “cronica”, allora è probabile che il potere del presidente russo si sgretoli. Perché più a lungo si trascina un conflitto, più si consumano le risorse, e più viene meno anche quell’entusiasmo patriottico nella popolazione.
Lo abbiamo già visto con l’Unione Sovietica, del resto: la caduta del Muro di Berlino ne decretò la fine, ma l’erosione iniziò con la guerra in Afghanistan, un conflitto che dissanguò Mosca. Anche agli Stati Uniti accadde qualcosa di simile con il Vietnam. Con una differenza sostanziale, però: in questo ultimo caso la sconfitta militare avvenne in un Paese geograficamente molto lontano ed ebbe contraccolpi relativamente leggeri sugli americani (anzi, finita la guerra, ci fu un’emigrazione economica dal Vietnam agli Stati Uniti). L’Afghanistan era invece più vicino alla Russia, così come lo è oggi l’Ucraina, che addirittura è un Paese confinante: il ché rendeva e rende adesso Mosca molto più esposta. Una sconfitta vicino casa sarebbe difficile da superare per Putin. L’obiettivo degli Stati Uniti è il presidente russo: dunque non un “regime change”, bensì la caduta di questo leader.
Alcuni analisti prefigurano il rischio che, messo alle strette, il Cremlino possa ricorrere all’impiego di armi non convenzionali: in altre parole, che possa sganciare la bomba atomica. È assolutamente doveroso e prudente tenere in considerazione che esiste questa possibilità, ma si tratta di uno scenario improbabile. Non tanto perché consideri ingenuamente la società di oggi migliore di quella del passato, ma perché l’utilizzo di armi nucleari innescherebbe di fatto una terza guerra mondiale dalla quale nessuno guadagnerebbe.
Intanto, la guerra in Ucraina sta già portando alcuni vantaggi agli Stati Uniti: alcuni dei prodotti russi posti sotto l’embargo europeo vengono infatti rimpiazzati con beni provenienti dal Nord America, e ciò potrebbe essere ancora più vero se le sanzioni venissero rafforzate. Pensiamo alle granaglie, al petrolio, al gas liquefatto. Gli americani, dunque possono soppiantare i russi come fornitori dell’Europa, e questo potrebbe dare un forte stimolo alla crescita dell’economia a stelle e strisce. Ma c’è anche un elemento più strettamente politico da considerare. I sondaggi dicono che Biden non gode di grande popolarità sul fronte domestico, dove viene dipinto da alcuni come un anziano che dice cose sconclusionate e che non riesce a portare a casa nessun risultato. In vista delle elezioni di mid-term, allora, è probabile – come spesso avviene nella politica americana – che il presidente vada a cercare all’estero quella legittimazione che non trova nella politica interna. È in questo senso che vanno rilette quelle sue parole pronunciate a Varsavia: quando Biden dice «Per l’amor di Dio, Putin non può restare al potere», utilizza un’espressione che ogni americano userebbe e capirebbe. È a lui che Biden sta parlando. Noi quel linguaggio non lo possiamo capire, proprio perché il destinatario del messaggio non siamo noi: è l’elettorato statunitense…
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