Pochi Paesi possono dire di avere un bipartitismo muscolare come gli Stati Uniti, tale da relegare qualsiasi altra piccola forza politica a una naturale marginalità. Democratici e Repubblicani storicamente si dividono il grosso dei consensi, lasciando alle altre realtà percentuali residuali: per trovare un candidato, fuori dai due grandi elettori, vincitore in almeno uno Stato dobbiamo risalire al 1968, quando il governatore dell’Alabama, George Wallace, il segregazionista attaccato frontalmente da Martin Luther King nel suo discorso “I have a dream”, riuscì a imporsi in diversi Stati del profondo sud. Per trovare un candidato indipendente arrivare in doppia cifra dobbiamo andare al 1992, quando l’imprenditore Ross Perot ottenne il 18 per cento.
Tuttavia, se la maggior parte delle volte i candidati più piccoli hanno avuto percentuali marginali più adatte a un voto di testimonianza, essi sono stati comunque determinanti per l’esito elettorale. Quando, ad esempio, nel 2000 George W. Bush sconfisse Al Gore, molti puntarono il dito contro il verde Ralph Nader, accusato di essere uno “spoiler candidate”, un candidato piccolo tacciato di danneggiare uno dei principali partiti. In quell’occasione, il mondo osservò ansiosamente lo spoglio della Florida deciso per un pugno di voti in favore di Bush, con il piccolo bottino elettorale di Nader che avrebbe potuto far vincere Gore, lì come in altri Stati.
Anche in altre occasioni, i candidati minori hanno ottenuto risultati degni di nota, anche se magari sono finiti subito nel dimenticatoio: nel 2016, ad esempio, il libertario Gary Johnson superò il tre per cento. E avrebbe probabilmente preso di più, se non fosse inciampato in una gaffe quando disse di non avere idea di cosa fosse la città siriana di Aleppo, all’epoca al centro di una sanguinosa battaglia.
Nel voto dello scorso 5 novembre, tuttavia, i candidati minori hanno avuto un ruolo totalmente marginale. Pochi voti, nessuno Stato in cui siano risultati in qualche modo determinanti. Per intenderci, la somma dei voti di Donald Trump e Kamala Harris ha superato il 98 per cento a livello nazionale, lasciando solo le briciole ai candidati minori. L’unico che avrebbe potuto avere un ampio spazio e verosimilmente portare a casa un valido risultato da terzo incomodo era Robert Kennedy jr., il figlio di Bob Kennedy che aveva lanciato da tempo una candidatura da indipendente e si apprestava a essere presente in quasi tutti gli Stati, ma a fine agosto ha deciso di fare un passo indietro per sostenere Trump, lasciando tuttavia il nome sulla scheda in molte aree e ottenendo comunque lo 0,4 per cento. Stessa percentuale per la verde Jill Stein, che aveva provato a ottenere i consensi dei dem delusi dal sostegno a Israele nella guerra a Gaza, senza però raggiungere particolari risultati, e stessa delusione per il libertario Chase Oliver, strutturalmente il favorito per il terzo posto per via della maggiore presenza sulle schede, finito però in quinta posizione. Che negli Stati Uniti ci sia poco spazio per i terzi incomodi è cosa nota, ma stavolta il bipolarismo non ha lasciato alcuno spiraglio.