Facebook non è un diritto. Twitter, Google, Facebook, sono aziende private con le quali l’utente, qualsiasi utente, sottoscrive un contratto commerciale: i suoi dati in cambio dell’uso della piattaforma, secondo determinati termini e condizioni. Privare qualcuno, fosse anche un presidente in carica, del proprio account, per aver pubblicato qualcosa di “inappropriato” è perfettamente legale.
Così come privare indefinitamente Trump dei suoi account Facebook e Twitter non è, propriamente, un atto di censura. Il primo emendamento (che tutela la libertà di culto, parola e stampa) riguarda azioni compiute dal governo, non da una società privata. Una legge che imponesse a Facebook di moderare i contenuti basandosi su determinati punti di vista, sarebbe considerata incostituzionale; viceversa, Twitter può decidere di bandire lo “hate speech”, pur essendo questo consentito e legalmente protetto negli Stati Uniti.
Trump non è nuovo a crociate contro i social network. Nel maggio dell’anno scorso, in risposta a un suo tweet etichettato come “non attendibile”, il Presidente ha cercato di modificare la sezione 230 del “Communications Decency Act”, con l’intento di aggravare le responsabilità assegnate a chi gestisce una piattaforma social.
In prima istanza ha cercato di rendere penalmente perseguibili i responsabili delle piattaforme per i contenuti ospitati (equiparandoli, di fatto, a mezzi di informazione tradizionali); poi cercando di abolire del tutto la sezione. Non sappiamo che indirizzo prenderanno i cambiamenti alla legge più importante per la libertà di parola online sotto l’amministrazione Biden, anche lui convinto che andrebbe abolita: “La sezione 230 dovrebbe essere revocata perché Facebook non è solo una società di Internet. Sta propagando falsità sapendo che sono tali”, ha dichiarato il nuovo presidente Usa.
Pur partendo da motivazioni opposte, repubblicani e democratici sembrano spaventati allo stesso modo dallo strapotere dei social network. Per quanto possa essere accettabile (o raccomandabile) la rimozione di contenuti che incitano all’odio, la reazione a catena che si è verificata nelle ore successive dimostra il vero potere dei giganti del web. Rimosso da Facebook e Twitter il Presidente si è rifugiato in Parler, social in odore di estrema destra (a titolo di esempio, nel portale Wikipedia è incluso nella serie “antisemitismo”).
Poche ore dopo, Google e Apple hanno deciso di rimuovere dai loro store le relative app, rendendo Parler inaccessibile al mondo degli smartphone. Per la stessa ragione, Amazon Web Services ha “staccato la spina” al sito web, che risulta inaccessibile da questa mattina. Di fatto, un gruppo di aziende private ha deciso (e reso possibile) la rimozione dei canali di comunicazione di un Presidente in carica.
Fatto che, per quanto nobili possano essere le motivazioni, pone molte domande su chi detenga davvero il potere e la possibilità di manipolarlo (ben oltre le “bolle informative” a cui siamo abituati). E su quanto il potere legislativo si muova, con estrema lentezza, in un mondo del tutto inesplorato.
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