Scrivo riguardo alla notizia che alcuni cittadini aquilani sono appena stati giudicati corresponsabili della loro morte per aver sottovalutato il rischio del terremoto, ovvero per essere rimasti a dormire nonostante le due forti scosse che lo hanno preceduto, in luogo di scappare dalle case; e lo faccio da antropologo culturale e consulente tecnico per l’Accusa al cosiddetto “processo dell’Aquila” o “processo alla Commissione Grandi Rischi” del 2012.
La sentenza di oggi fa tornare subito in mente quell’iter processuale a cui partecipai come Perito. In quel caso, anche se i media vollero titolare erroneamente con la formula “scienziati assolti”, la vicenda giuridica si concluse con la condanna di uno degli esperti. Questi fu riconosciuto colpevole perché, in mezzo a una sequenza sismica in crescita da mesi, durante un’intervista televisiva postulò che non vi fosse pericolo alcuno, invitando i cittadini a bersi un bicchiere di Montepulciano. Da lì, attraverso i media locali, una rappresentazione sociale di assenza di pericolosità – ancorata sul concetto di “sciame sismico” e oggettivata nel significato di “scarico positivo di energia” – contagiò immediatamente il senso comune locale, diffondendosi tra la popolazione nella forma di una credenza con cui la gente, affamata di spiegazioni con cui saziare la montante paura cagionata dal susseguirsi di scosse, dava senso all’evento perturbante che stava vivendo. Tale rappresentazione di assenza di rischio condizionò parte della popolazione a interpretare le due forti scosse che precedettero di qualche ora quella catastrofica non come presagio del disastro che sarebbe avvenuto ma come segno positivo che lo stesso si stava “rateizzando” in forma innocua.
È così che spiegai davanti alla Corte come quella comunicazione, diminuendo la percezione del rischio, aveva aumentato l’esposizione al pericolo (il pericolo di morire travolti dal sisma, che poi è arrivato), rivelandosi, in determinati casi, quale concausa reale di morte. Denominai “rassicurazionismo” questo fenomeno culturale di rimozione del rischio. Da oltre dieci anni cerco di chiarire che il processo dell’Aquila non è stato, come si legge spesso, un processo “contro la scienza”; semmai è stato, al contrario, un processo per la scienza, in quanto rivolto alla comprensione delle conseguenze disastrose che può avere una fallace valutazione e comunicazione del rischio. Diversamente da come raccontarono i media mainstream, nessuno accusava gli esperti di non aver previsto il terremoto: l’imputazione riguardava l’aver dato un’interpretazione del rischio scientificamente infondata che si rivelò una rassicurazione disastrosa. Insomma, la questione non era che non fu previsto il terremoto ma che fu previsto che il terremoto non ci sarebbe stato, che fu previsto un “non terremoto”.
In tutti i modi oggi questa nuova e sorprendente sentenza – che incolpa i cittadini aquilani di non aver capito che stava arrivando un terremoto – ridefinisce paradossalmente la responsabilità di chi, dal piano dei saperi esperti, si comportò esattamente come quelle persone giudicate ora corresponsabili della loro morte; con l’aggravante che fu proprio la rassicurazione esperta dello “scarico di energia” a persuadere molti aquilani ad adottare una condotta rivelatasi imprudente (per quelli che sono stati salvati dalla resistenza degli edifici) o fatale (per chi si è ritrovato sotto le macerie). Ora è ancora più chiaro che si sarebbe dovuto capire che poteva arrivare un terremoto, ma le vittime sono state condannate più di chi le ha persuase a esporsi al pericolo che poi si è concretizzato nella catastrofe aquilana.