Non sappiamo cosa sarà nel futuro prossimo del Movimento Cinque Stelle, ma proprio mentre molti scommettono su una sua importante battuta d’arresto, ha incassato una vittoria: imporre al PD la sua linea sul referendum. Già agli albori del governo giallo-rosso, nell’estate 2019, i vertici pentastellati avevano fatto capire che per loro il voto dem a favore di uno dei loro cavalli di battaglia, la riduzione dei parlamentari, sarebbe stata una condizione inalienabile per la formazione e la tenuta del governo. Di fronte allo spauracchio di un monocolore salviniano, al Nazareno non si sono dunque fatti particolari problemi a votare a favore di un provvedimento che aveva sempre visto una maggioranza bulgara nei tre precedenti passaggi parlamentari, nonostante proprio i dem fossero sempre stati tra i pochi contrari.
Almeno fino all’inizio della loro liaison con il M5S. Tuttavia, con l’avvicinarsi del referendum sono cresciuti i mal di pancia interni al PD verso un provvedimento che in tanti avevano vissuto come estraneo, mal di pancia sui quali lo stesso partito aveva deciso di non decidere. Nonostante il referendum fosse previsto originariamente per maggio (il Covid ha poi messo la cosa in secondo piano), e sia poi stato spostato al 20-21 settembre a causa dell’emergenza sanitaria, il PD ha atteso solo il 7 settembre, nemmeno due settimane prima del voto, per stabilire una linea. Questa decisione ritardata va in una direzione legittima e dettata da una volontà – una chiara scelta politica – di portare avanti l’alleanza col Movimento Cinque Stelle, nata originariamente come intesa di comodo per precludere a Salvini le ambizioni di governo e trasformatasi poi in qualcosa di più profondo, forse imprevedibile ma che ha trovato terreno fertile.
Ma tale decisione comporta un grave errore politico: utilizzare il taglio dei parlamentari come asse portante dell’intesa. Inutile girarci intorno: si tratta di un provvedimento estraneo al PD, che aveva votato contro di esso in ben tre dei quattro precedenti passaggi parlamentari. Inoltre si tratta “semplicemente” di un taglio, non di una vera riforma dell’impianto istituzionale italiano o di un cambio delle regole del gioco. Dunque un po’ poco per fondarci sopra un’alleanza, soprattutto trattandosi di un provvedimento estraneo alla recente storia dei dem. Per cercare di fare proprio il Sì al referendum, il segretario dem Nicola Zingaretti ha chiesto una serie di riforme complementari al taglio dei parlamentari per cambiare le regole della macchina democratica e adeguarle a quello che sarebbe il nuovo parlamento.
Ma si possono veramente sviluppare percorsi di riforma partendo da una questione meramente numerica e da un accordo di comodo messo in piedi per rassicurare gli alleati e garantire di conseguenza la tenuta del governo? Può accadere questo dopo che nel 2006 e nel 2016 sono stati messi in campo due diversi tentativi di riforma costituzionale, arrivati da governi di diverso orientamento, entrambi respinti dagli italiani? Questo si vedrà solo al momento del voto e lì capiremo se in caso di vittoria del Sì il PD sarà in grado di farla passare al proprio elettorato e all’opinione pubblica come una propria vittoria o meno. Ma comunque vada, la scelta dei dem di votare e di essere in campo per il taglio dei parlamentari è una vittoria del Movimento Cinque Stelle.
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