Quando mi sono trovata davanti al microfono, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova, sapevo che un intero discorso di critica al merito, nel tempio della meritocrazia celebrata e ostentata, soprattutto davanti al ministro Bernini, ai professori, agli esponenti politici, avrebbe un po’ infastidito qualcuno.
La mia impressione è che la discussione attorno alla parola «merito», negli ultimi mesi, si sia incagliata. Ci siamo persi in un bicchiere d’acqua quando questo governo ha provato legittimamente, ma a spese di tutti noi, a spostare a destra la discussione.
«Ministero dell’Istruzione e del Merito», l’hanno chiamato, e poi hanno lasciato che il dibattito si polarizzasse, fino a che è sembrato che rimanessero solo gli alfieri della meritocrazia da una parte, e i livellatori del 6 politico dall’altra. La realtà, nel frattempo, andava avanti come sempre, con le sue mille sfaccettature. Ed è di questo che volevo parlare, quel giorno, nel mio discorso.
Oltre a una discussione politica esasperata e avvitata attorno alle sfumature lessicali ne esiste una fatta di scadenze, esami, rapporti familiari, aspettative, ma a volte anche povertà, pendolarismo, lavoro. Ne esiste anche un’altra, tutta mediatica, di racconto di eccellenze, record, esaltazione del sacrificio a qualunque costo.
Il merito che abbiamo imparato a conoscere nel sistema universitario italiano nasce dalla seconda realtà, ma si applica alla prima, lasciando una voragine di non-detto dove tante e tanti continuano a perdersi. Voglio parlarvi della realtà che conosco io.
Studiare, in Italia, costa. Tasse universitarie, libri, trasporto, a volte una casa in affitto. Le misure di diritto allo studio (come la riduzione delle tasse in proporzione al reddito, le borse di studio o l’accesso a uno studentato) sono insufficienti e limitate ad una ristretta fetta di studenti. Si disegna così una società ingiusta che sembra aver rinunciato in partenza all’idea della gratuità dell’istruzione, data per scontata nella maggior parte dei Paesi europei.
Non esiste giustizia se, come accade nella mia regione, il Veneto, più di 2.400 studenti aventi diritto a una borsa di studio non la ricevono. E ancora non vi è giustizia se ci sono studenti che per studiare hanno necessità di lavorare, rinunciando alla frequenza, o se chi, a causa di una crisi abitativa senza precedenti, ogni giorno fa chilometri e chilometri per andare all’università.
Se non parliamo innanzitutto di questa realtà contribuiamo a crearne un’altra, dove saranno sempre di più, purtroppo, i ragazzi e le ragazze che preferiscono togliersi la vita piuttosto che ammettere di aver mancato una scadenza universitaria.
«Ma quand’è che studiare è diventato una gara?», ho chiesto quel giorno, a una platea piuttosto incredula. E quand’è che l’università è diventata un ostacolo?
Io vorrei che il luogo in cui studio potesse essere il primo in cui cercare supporto: l’istruzione pubblica dovrebbe essere la nostra àncora di salvezza, non la nostra condanna. Alcuni dati dell’Istat riportano che 800mila giovani italiani vivono una condizione di disagio psicologico, e ancora i dati della ricerca Ires “Chiedimi Come Sto” mostrano che, su una popolazione intervistata di 30mila studenti, il 90% chiede un supporto psicologico.
Similmente al diritto allo studio, anche il diritto a una salute a tutto tondo è tutt’altro che garantito: l’assistenza psicologica è ancora oggetto di grandi tabù, e ha dei costi che spesso la rendono assolutamente inaccessibile agli studenti. Servirebbero risposte coraggiose, politiche, universali, preventive. Iniziamo dall’università?
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