Dieci anni di botte. Dieci. Quelle prese in caserma che l’hanno ucciso fracassandogli l’anima oltre che gli zigomi e quelle che hanno continuato a menare a lui, alla sua memoria, alla famiglia, a tutti quelli che chiedevano giustizia e che si aspettavano giustizia, dieci anni di botte a chi crede che la parola “custodia” che sta nelle carte delle procure ci stia il dovere di custodire davvero.
Stefano Cucchi è morto dieci anni fa, ma Stefano Cucchi è morto anche tutti gli anni prima, in quegli anni in cui la politica ha avuto paura di ficcare il naso sui morti di botte per non urtare la responsabilità delle forze dell’ordine, ma Stefano Cucchi è morto anche tutti gli anni dopo sulla bava di Giovanardi (e di Salvini, e di qualche pessimo sindacato di Polizia e altra gente di questa risma) che ha storpiato la realtà pur di piegarla a conferma delle proprie tesi.
No, non è vero che la morte di Stefano Cucchi sia una questione privata, come vorrebbe farci credere qualcuno: la morte di Stefano Cucchi è la fotografia indelebile dello Stato quando decide di dare il peggio di se stesso e si attorciglia sulle proprie responsabilità pur di non ammettere una colpa.
Anni di processi in cui uomini in divisa, uomini che dovrebbero onorare la verità e perseguirla, si sono arroccati nelle loro miserabili bugie per scaricare le colpe sulla vittima, come nei peggiori racconti polizieschi della Storia d’Italia.
Se c’è un morto e non ci sono colpevoli allora le colpe sono del morto: il trucco ha funzionato per secoli, funziona e funzionerà ancora.
Oggi, dieci anni dopo, sulla morte di Cucchi siamo sul punto su cui avremmo dovuto essere dieci anni fa, qualche ora dopo l’arresto di Stefano, quando sarebbe dovuta arrivare una chiamata per dire che quel ragazzo era stato pestato, quando qualcuno avrebbe dovuto rifiutarsi di omettere i fatti e di ritoccare i verbali, quando una lunga sfilza di persone che hanno visto passare sotto i propri occhi quel corpo martoriato avrebbe dovuto almeno alzare un dito e chiedere spiegazioni.
Sono stati dieci anni di fatica, di veleno e di bugie per arrivare al punto di potersi concedere la sensazione della possibile giustizia. Non è da Paese normale. Non è da Paese civile.
È un anniversario che stringe il cuore e che dovrebbe vedere lo Stato semplicemente, con la testa china, chiedere scusa. Comunque vada a finire, scusa, dire solo così.
Noi, dalla nostra parte, possiamo almeno cercare di non lasciare inosservato, nessun livido, nessuna macchia.
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