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    I sogni infranti della generazione infelice

    Credit: AGF

    Lavoro povero, precarietà esistenziale, devastazioni ambientali: così un capitalismo decrepito ha privato i giovani del futuro

    Di Roberto Bertoni
    Pubblicato il 18 Ott. 2024 alle 16:03

    Come spiegava Domenico De Masi in uno dei suoi ultimi saggi, «non c’è progresso senza felicità e non si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele». Non a caso, aggiungeva, «questo è l’esito raggiunto da una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obiettivo l’infelicità». 

    Il saggio s’intitola “La felicità negata” (Einaudi) e nella prima parte contrappone le teorie della Scuola di Francoforte e quelle della Scuola di Vienna, l’interpretazione avanzata del marxismo e il neo-liberismo che si è, purtroppo, rivelato egemone nella seconda metà del Novecento, anche grazie all’attribuzione di alcuni discutibili premi Nobel per l’Economia. 

    Ebbene, De Masi, da par suo, aveva colto il dramma delle nuove generazioni. Suicidi, incertezze, panico, stress, un male di vivere prossimo allo «spleen» di baudeleriana memoria e persino un calo del desiderio sessuale dipendono, infatti, dal modello sociale, economico e di sviluppo nel quale siamo immersi. 

    La fine dell’ottimismo
    Che la storia non sia finita con l’abbattimento del Muro di Berlino dovrebbe essere ormai patrimonio comune. Il punto è che tutto ruota proprio intorno al concetto di felicità. E così, se il motto che aveva fatto la fortuna di Clinton nel 1992 era stato «It’s the economy, stupid!», sancendo di fatto il primato dell’economia, e ben presto anche della finanza, sulla politica, oggi assistiamo al disperato bisogno di politica da parte della generazione cui la globalizzazione senza regole ha tolto il futuro. 

    Non si spiega altrimenti l’ascesa del socialismo in salsa americana targato Bernie Sanders, l’avanzata della Squad e, sull’altro versante, ahinoi, il dilagare del trumpismo. Le prime due sono forme di reazione positive, la terza per nulla, ma c’è un filo rosso che le congiunge: la ricerca, come detto, di una nuova forma di felicità, il bisogno di un’affermazione collettiva dopo la sbornia individualista che ha caratterizzato il quarantennio thatcheriano, il ritorno del concetto di comunità nel momento in cui «la solitudine del cittadino globale» di cui parlava Bauman è diventata insostenibile. 

    Del resto, l’America è il Paese in cui uno dei passaggi fondamentali della Dichiarazione d’indipendenza recita: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità». Eppure, è proprio la dimensione del sogno a essere ormai estranea a quelle latitudini. Per questo, pur avendo sparso ottimismo a piene mani nell’arco di tutta la Convention, i democratici non sono ancora riusciti a imprimere una svolta alla propria campagna elettorale. Per quanto dall’altra parte ci sia un personaggio alquanto controverso, difatti, è la speranza a essere venuta meno, specie fra i giovani, fra gli ultimi, fra i dannati degli accordi di libero scambio, fra coloro che la finanziarizzazione dell’economia ha ridotto sul lastrico, fra i grandi sconfitti di una modernità diseguale e fra tutti coloro che si sentono esclusi da una realtà che sentono nemica. 

    La felicità come diritto inalienabile era uno dei capisaldi dell’«American Dream» e una delle ragioni del successo del “soft power” a stelle e strisce. Oggi è venuto meno ed è forse questa la chiave per comprendere il declino di un impero messo in crisi più dalla depressione che dai fondamentali economici, al contrario ancora solidi. 

    Vite rinviate
    Già Adriano Celentano, oltre mezzo secolo fa, aveva teorizzato, con l’ironia che lo ha sempre caratterizzato, che «chi non lavora non fa l’amore». Partendo da una citazione insolita, ci spingiamo a sostenere che la fuga dei cervelli dall’Italia, la cronica infelicità dei ragazzi che restano e il mutamento radicale, non sempre positivo, del concetto di famiglia e dei rapporti umani abbiano a che fare con l’insoddisfazione che le difficoltà ad arrivare a fine mese comportano. 

    È noto, infatti, che siamo uno dei Paesi in cui si esce di casa più tardi, si fa più fatica a ricevere un mutuo, l’età media dei docenti universitari è fra le più alte, le prospettive si restringono di giorno in giorno e si parla ormai di «inverno demografico», se non peggio. 

    Lavoro e povero non solo compaiono nella stessa frase ma sono condizioni abituali per almeno due generazioni. Si tratta di una forma di precariato esistenziale, di vite rinviate a data da destinarsi, nell’impossibilità di mettere al mondo un figlio e, talvolta, nella perdita del desiderio di farlo, in una sorta di trionfo dell’egoismo indotto dal ritardo con cui si sono raggiunti traguardi che le generazioni precedenti riuscivano a tagliare molto prima. 

    La nostra sensazione è che anche fenomeni allarmanti come l’aumento del consumo di alcol e droghe siano legati a questo scenario: se non hai un domani, un orizzonte e un obiettivo da perseguire, vivi in un eterno presente. 

    È una forma di millenarismo, l’idea che in mancanza di un avvenire tanto valga godersi l’attimo, persino a costo di compromettere la salute e le facoltà mentali. 

    Non arrendersi
    Non possiamo e non dobbiamo arrenderci a quest’orrore. Salario minimo e Reddito di cittadinanza costituiscono norme di civiltà che esistono in quasi tutti i Paesi europei e questa battaglia deve accomunare l’intero campo progressista.

    Riprendendo alcune proposte di De Masi, si sta facendo strada l’idea che si possa ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, favorendo l’affermazione dell’economia del tempo libero che, oltre a donare gioia a chi ne usufruisce, genera anche posti di lavoro di qualità, quindi è tutt’altro che una visione utopistica. Tuttavia, ancora non basta. Perché l’utopia è uno dei motori della civiltà e non può essere esclusa a priori.

    Liberare la società, riprendendo in parte le provocazioni concrete espresse da Marcuse in “L’uomo a una dimensione”, significa riaffermare la piena emancipazione dei costumi: dalla sessualità, oggi criminalizzata o, comunque, male interpretata, al rifiuto dei meccanismi alla base di un capitalismo decrepito e di un consumismo che ha devastato l’ambiente, provocando un malessere diffuso e arrecando danni alle persone, al paesaggio e alle risorse di un pianeta che ogni anno va in riserva sempre prima. 

    E qui si torna a Seattle, al movimento alterglobalista di fine anni Novanta, al “No Logo” di Naomi Klein, alla contestazione radicale di uno stile di vita insostenibile e alle nuove forme di lotta che stanno caratterizzando i giovani in questo decennio. La felicità, difatti, non può prescindere dall’impegno politico, dal ritrovarsi in luoghi fisici dopo essersi per troppo tempo confinati nello schermo di uno smartphone, nella riappropriazione del concetto di cittadinanza, nel ritorno a essere un popolo dopo essere stati per decenni un mero pubblico e nel risveglio di una dimensione corale dalla quale l’essere umano non può prescindere. Mai come ora, dopo aver subito la teorizzazione della resa, abbiamo bisogno, per dirla con Claudio Napoleoni, di cercare ancora.

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