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    Altro che difendere i curdi, Putin vuole prendersi il Medio Oriente (di Giulio Gambino)

    Il presidente russo Vladimir Putin
    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 16 Ott. 2019 alle 08:30 Aggiornato il 10 Gen. 2020 alle 20:12

    È passata una settimana da quando l’esercito turco ha intrapreso un’offensiva militare contro i curdi nel nordest della Siria. Mentre scriviamo il bilancio di questa guerra ai curdi parla di oltre 600 vittime, tra cui diverse centinaia civili. Si stima un milione e mezzo di persone senza assistenza sanitaria e 200mila profughi.

    L’azione in solitaria del presidente Recep Tayyip Erdogan è stata messa in moto dal repentino ritiro degli Stati Uniti da un’area ritenuta strategicamente importante (territorio conteso le cui sorti riconducono a un conflitto apparentemente senza fine), tale da portare diversi osservatori a definire un tradimento quel ‘lavarsene le mani’ del presidente USA Donald Trump.

    Così, mentre la Turchia porta avanti la sua marcia nel tentativo di annettere la porzione di terra storicamente abitata dal popolo curdo, le forze geopolitiche in campo hanno iniziato a muovere i primi passi. Da un lato gli Stati Uniti promettono sanzioni contro Ankara. Dall’altro l’Unione Europea disapprova all’unanimità l’azione di Erdogan. Ma non riesce a trovare la quadra sulle esportazioni di armi verso la Turchia (in corso e future) poiché i paesi membri dell’Ue hanno politiche e interessi diversi. E in mancanza di una strategia comune da adottare, o di un esercito europeo come spesso si è detto, sarà pressoché impossibile riuscire a giungere a una simile soluzione collegiale oggi come in futuro.

    La questione dello stop alla vendita di armi verso la Turchia non è solo simbolica tenuto conto del fatto che alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, hanno ancora in sospeso esportazioni di materiale bellico nel confronti di Ankara. Armi che potrebbero perciò essere utilizzate per bombardare i curdi nei giorni e nelle settimane a venire. Il 15 ottobre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha detto che valuterà la sospensione delle esportazioni anche per gli ordini ancora da portare a termine. Ma è tutto da vedere.

    È pur vero tuttavia che l’Italia, come riportato in questo articolo di Madi Ferrucci per TPI, continua a tenere in piedi una missione Nato a tutela della Turchia tramite l’impiego di alcuni militari italiani sul campo e la difesa militare nell’eventualità del lancio di missili sul suolo turco provenienti dalla Siria. Una contraddizione non di poco conto per la nostra diplomazia, che se vuole mantenere la credibilità sul piano internazionale deve prendere una posizione netta nei confronti dell’offensiva militare turca a danno dei curdi.

    Il quadro è reso più complesso, va detto, dall’Ue stessa e dalla Nato, i cui accordi siglati individualmente dai paesi membri in seno a queste istituzioni sovranazionali permettono un parziale margine di manovra in termini di autonomia geopolitica e militare.

    Ed è proprio sullo sfondo di questa complessa partita che si gioca il ruolo di alcune forze in campo, che non devono fare i conti con accordi la cui sovranità nazionale viene almeno in parte messa in discussione. È il caso della Russia ad esempio, player fondamentale in questo scacchiere turco-siriano. Il presidente russo Vladimir Putin si è subito mosso non appena Erdogan ha spostato le sue pedine nel nordest della Siria. E lo ha fatto a favore dei curdi.

    Così, sia pure con difficoltà e sconforto – come riportato sul campo dalla nostra inviata Benedetta Argentieri che il 15 ottobre ha varcato il confine iracheno ed è riuscita a entrare nel Rojava, da cui tiene un prezioso diario quotidiano per TPI – i curdi hanno accettato un insospettabile accordo con il governo siriano del presidente Bashar al-Assad conclusosi proprio grazie alla mediazione della diplomazia russa.

    Del resto, è stato lo stesso comandante dei curdi a spiegare in un articolo apparso per la prima volta sulla celebre rivista Foreign Policy il perché di questa alleanza all’apparenza inaccettabile e inspiegabile. Si può dunque parlare di doppio tradimento, vale a dire quello USA nei confronti dei curdi e quello dei leader curdi nei confronti del proprio popolo, che per lungo tempo ha dovuto opporsi con resistenza alla “tirannia” di Assad? No, per nulla. Ma di convenienza politica, se mai, mossa dal realismo geopolitico di Mosca e dei curdi (realismo inteso come dottrina delle relazioni internazionali).

    I curdi hanno poco da vincere e tanto da perdere. I russi poco da perdere e molto da vincere. Putin ha un’agenda chiara: ristabilire, anche e proprio con l’azione di Erdogan, chi è il padrone del Medio Oriente. E con questi Stati Uniti di Donald Trump, le cui relazioni rispetto a Mosca non sono forse mai state così promiscue, i russi hanno il campo parzialmente libero. Assad ha un’opportunità per riabilitare la propria figura, ammesso che ciò sia anche solo lontanamente ipotizzabile dopo 9 anni di guerra civile siriana che hanno tagliato gambe, testa e anima al suo paese.

    Putin si è mosso da gran campione ed è lui il vero vincitore, almeno in quanto a solidarietà (reale e concreta) verso i curdi. Il cattivo per eccellenza che agisce da buonista. L’uomo che ha annesso la Crimea che difende il popolo annesso. Una posizione, almeno finora, ben più definita e netta rispetto a quella assunta dall’Occidente assai impreparato e da un’Europa inadeguata, poiché priva di potere comunitario e soprattutto degli strumenti politici per agire (ricordo che abbiamo anche un ministro degli Esteri europeo, mai pervenuto).

    Putin è anche il leader che ne può uscire più forte da questa sfida, almeno sul piano mediatico, nel breve termine. Se la vincerà, colmerà un vuoto geopolitico in una regione, quella mediorientale, in cui giacciono interessi strategici, politici, commerciali di ancora elevato valore ai fini del controllo degli equilibri del potere globale.

    A dimostrazione che il Medio Oriente è ancora oggi il pivot per eccellenza della politica internazionale, e in ogni caso sempre di più rispetto alla regione del sudest asiatico che gli Stati Uniti del primo Barack Obama e di Hillary Clinton segretario di Stato avevano indicato come il nuovo centro strategico d’interesse globale per le forze geopolitiche. Quello, il sudest asiatico, è ormai completo appannaggio della Cina. È in Medio Oriente che si gioca ancora la partita. E Putin lo sa.

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