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    Sinisa Mihajlovic ci insegna che il cancro non si combatte facendo gli eroi, ma senza paura di mostrarsi umani

    Sinisa Mihajlovic durante la partita di ieri del Bologna. Credit: ANSA/FILIPPO VENEZIA

    Il commento di Lorenzo Tosa

    Di Lorenzo Tosa
    Pubblicato il 26 Ago. 2019 alle 09:40 Aggiornato il 27 Set. 2019 alle 15:12

    Gli zigomi scavati dalla malattia, il corpo straziato dalla chemio, un grosso cerotto sul collo, venti chili in meno indosso, gli occhi fissi che sembrano guardare un metro quadrato di campo a cui noi non abbiamo accesso.

    Ieri sera Sinisa Mihajlovic si è presentato così, sulla panchina del suo Bologna, all’esordio in campionato, appena 40 giorni dopo aver annunciato al mondo di avere la leucemia. Altri si sarebbero chiusi in qualche rifugio personale. E per 24 ore, per la verità, lo ha pure fatto.

    Per una giornata intera Sinisa non ha fatto altro che piangere. Poi, a un certo punto, ha deciso che era venuto il momento di uscire fuori e combattere. E la seconda cosa che ha fatto, il 13 luglio scorso, è stata convocare una conferenza stampa e accendere il microfono.

    Parlarne. Apertamente. Pubblicamente. Ammetterlo. A se stesso e agli altri. “La cosa più difficile – ha detto – è stata convincere mia moglie che era vero. Ma nella mia vita ho vinto tante sfide. Vincerò anche questa”.

    Un mese dopo l’ex allenatore di Sampdoria, Milan e Fiorentina ha concluso il suo primo ciclo di chemioterapia (“Senza complicazioni” recitava il referto medico). Quaranta giorni e rieccolo in panchina per una gara ufficiale, a Verona, stadio Bentegodi, irriconoscibile nel fisico, inconfondibile per quel modo tutto suo di non piegare la schiena anche quando la vita ti sbatte contro un muro.

    Come quando, appena ventenne, scappava dalle bombe della sua Vukovar, al confine esatto tra Serbia e Croazia, inseguendo un pallone sino a Belgrado con la maglia a striscie della Stella Rossa.

    Un giorno lo chiama Zeljko Raznatovic, meglio noto come “Arkan”, ha in mano lo zio di Sinisa, Ivo. “Quest’uomo è davvero tuo zio?” gli chiede Arkan. “Sì, lo è”.

    Da allora Sinisa non ha mai nascosto la sua simpatia per quel signore della guerra serbo che ha salvato lo zio Ivo e che, molti anni dopo, sarebbe stato riconosciuto colpevole di crimini di guerra dal Tribunale dell’Aja insieme a Slobodan Milosevic per migliaia di altri zii Ivo a cui non sono stati risparmiati vita e orrore.

    Ancora gliela rinfacciano adesso quell’amicizia, ora che Sinisa ha di fronte a sé un altro male da combattere. Il Male. Ha deciso che lo affronterà come l’ha sempre fatto da calciatore e da allenatore, e prima ancora da ragazzo tra granate e mitragliatori, in campo e nella vita, sempre a viso aperto.

    Ma, per favore, non chiamatelo guerriero, né supereroe. Sinisa Mihajlovic è solo un uomo, con il suo orgoglio, la sua dignità, la sua forza, le sue fragilità. E ieri sera, con la sua semplice presenza in panchina, ci ha insegnato che non esiste un modo giusto e uno sbagliato per combattere il cancro ma solo quello che sei e il modo in cui lo senti.

    Per la cronaca, il Bologna ha pareggiato con il Verona, nonostante la superiorità numerica. Un’occasione sprecata. Sinisa, invece, è entrato e uscito tra gli applausi dell’intero stadio.

    Non ha vinto e non ha perso, il campionato in cui gioca non prevede 1, X, 2. No, stasera ha fatto qualcosa di più profondo e importante: per 90 minuti è stato Sinisa. In fondo, non c’è altro modo di essere eroi.

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