Tra i tanti mali che affliggono il nostro Paese, uno in particolare appare evidente in questi giorni, anche se poco se ne parla: l’anemia sindacale. L’impressionante inadeguatezza con cui quelli che dovrebbero essere i rappresentanti dei lavoratori, e gli artefici delle loro battaglie, rispondono al continuo degrado delle condizioni di lavoro e, in ultimo, alle sfide che il «governo più a destra di sempre» (per lo meno da quando l’Italia è una Repubblica «fondata sul lavoro») non manca di lanciare.
La giornata del Primo Maggio è stata esemplare: la capa del governo Giorgia Meloni nel giorno in cui tutti i lavoratori si fermano per celebrare la propria festa decide di “lavorare”, rivelando il proprio comune sentire con quel regime che il Primo Maggio, appunto, l’aveva soppresso già nel 1923 in odio alle bandiere rosse che in quel giorno sfilavano, sostituendolo con la festa del Natale di Roma e i suoi miti imperiali. E tiene un Consiglio dei ministri che decide alcune delle misure più anti-sociali dopo quelle del Jobs Sct renziano.
Poi, non paga, pubblica un video pieno di balle, con gran finale in crescendo: lei in primo piano che si affaccia come Alice nel paese delle meraviglie alla sala del Consiglio dei ministri già al completo e spara in faccia a chi guarda «Buon Primo Maggio a tutti. E adesso al lavoro!».
Un pugno in faccia ai tre sindacati che in quel momento sfilavano nelle principali piazze, i quali che fanno? Sbandano, si disuniscono, bisbigliano.
Il solito Sbarra, campione di collateralismo governativo di qualunque colore si tratti, dice a nome della Cisl che nel decreto ci sono cose buone ed è una strada «da percorrere» (sic!). Landini definisce «irrispettosa» la scelta del governo di approvarlo proprio in quel giorno, come d’altra parte era stata la convocazione in extremis, alle 19 del giorno prima, per comunicar loro i contenuti. Bombardieri, Uil, parla di «atto di propaganda».
E poi? Proclamano uno sciopero generale? Chiamano i propri iscritti alla lotta? Minacciano di fermare qualche settore strategico del Paese, come da sempre hanno fatto i movimenti dei lavoratori quando colpiti nell’onore e nelle condizioni materiali? Niente di tutto questo.
Annunciano che «restano in campo iniziative e ragioni che ci hanno portato a indire le giornate di mobilitazione il 6 a Bologna, il 13 a Milano e il 20 a Napoli»: tre sabati(!), tre giorni in cui le principali attività produttive del Paese sono ferme di per sé, in cui quindi non si “ferma” un bel niente, e il danno inferto alla controparte, governo in primis, è nullo.
La cosa è tanto più impressionante se confrontata con quanto accade subito al di là delle Alpi, dove alla mobilitazione eccezionale indetta unitariamente dall’intersindacale contro la riforma delle pensioni voluta da Macron hanno partecipato in quasi due milioni e mezzo (non se ne vedevano tanti dal 2009), incendiando le piazze francesi e dando vita a quella che è stata definita una «giornata storica».
La quale seguiva, va ricordato, altri dodici giorni di costante rivolta, con occupazioni di fabbriche e uffici, scontri di piazza, blocchi stradali, eccetera. Il tutto a testimonianza della “détermination à obtenir le retrait de la réforme des retraites”, cioè a bloccare una riforma delle pensioni che aumenta di due anni l’età pensionabile, portandola a 64 anni, quando da noi siamo a 67 e non muove foglia!
Si tenga conto che gli stipendi lordi medi annui in Francia sono superiori a quelli italiani di circa 10mila euro (iquelli tedeschi di 15mila). Ma soprattutto è drammatica la differenza tra la difesa delle condizioni di vita dei lavoratori in Francia e qui da noi.
Un solo dato parla per tutti: mentre il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti francesi è aumentato, nell’ultimo trentennio, del 31%, quello dei nostri (unico dato nel mondo cosiddetto sviluppato) è diminuito del 2,9% (dati Ocse).
Né si dimentichi che in Francia esiste, fin dal 1950, il salario minimo, attualmente fissato a 1.353,07 euro netti mensili (11,27 lordi all’ora). E che è perfettamente attivo un Reddito di cittadinanza (si chiama Rsa, Revenu de solidarité active) il quale garantisce, se si ha un reddito insufficiente, almeno 580 euro a persona per chi ha più di 25 anni e ai 18-25enni che abbiano già lavorato, senza che nessuno si sogni di contestarlo.
Certo, su questa regressione sociale che in un trentennio ha portato il nostro Paese nelle condizioni di una sorta di medioevo del lavoro, un ruolo importante l’ha giocato l’avidità e l’avarizia di un ceto industriale votato più alla speculazione finanziaria che all’investimento produttivo.
Terze generazioni estenuate e viziate, incapaci di gestire la (difficile) transizione da quel modello fordista-taylorista che l’Italia aveva saputo interpretare, sia pure a modo suo, comunque dinamicamente, a un post-fordismo mai compiuto, vissuto all’insegna della frammentazione e della compressione delle condizioni di vita dei lavoratori, precarizzazione e atomizzazione.
Né va sottovalutata la mancanza di visione strategica delle classi politiche di centrodestra come di centrosinistra, sostituita da un arrendevole tirare a campare, incapaci, tutte, di cacciar fuori dai propri ampi cappelli neanche uno straccio di politica industriale degna di questo nome.
Ma, per venire al nostro tema, in questa caduta agli inferi del mondo del lavoro non è senza colpa nemmeno quel sindacato che avrebbe dovuto, istituzionalmente, far per lo meno da paracadute, e che invece non ha parato quasi nulla, per rassegnazione o per collusione.
Quella linea piatta, inclinata verso il basso, della dinamica salariale è, in questo, un capo d’accusa implacabile. I dati delle statistiche degli scioperi rilevati dall’Ocse testimoniano in modo drammatico, per il nostro Paese, un progressivo affievolirsi (quasi un’emorragia) dell’azione sindacale: l’Italia, infatti, che ancora negli anni Novanta stava in una fascia media per conflittualità sociale, con 156 giorni di lavoro persi annualmente ogni mille lavoratori, nel periodo 2008-2018 è precipitata agli ultimi posti con una flebile media di 42 giorni contro i 112 della Francia (quasi tre volte tanto), i 105 della Danimarca, i 98 del Belgio e i 76 della Spagna (il doppio)…
Pesa senza dubbio la metamorfosi regressiva della Cisl, che ancora negli anni Sessanta e Settanta aveva messo in campo un sindacalismo grintoso e innovativo e che dagli anni Ottanta in poi, con un’accelerazione nell’epoca dell’egemonia del centrodestra, si è trasformata in una sorta di appendice dello Stato e dei suoi cangianti esecutivi. Ma anche l’ossificazione burocratica della Cgil, non contrastata neppure dall’avvento di un leader un tempo combattivo e intransigente come Maurizio Landini.
Il risultato è stato una sorta di “de-socializzazione del lavoro” fattosi subalterno e periferico nel discorso pubblico, tanto che Meloni può spacciare come un «taglio fiscale storico» quella rimodulazione di 3 o 4 punti del cuneo che porterà in busta paga, al netto, poco più di una ventina di euro per i salari più bassi (meno di un caffè al giorno).
E può accreditarsi come contrasto alla povertà la liquidazione del Reddito di cittadinanza per quei lavoratori (e sono tanti) che pur essendo occupati sono comunque in condizione di povertà assoluta, mentre dall’altra parte si amplia ulteriormente l’area del lavoro precario. È così che i reazionari di tutta Europa potranno infine esclamare il loro «Ben scavato vecchia talpa».