La spettacolarizzazione del ritorno di Silvia Romano, un regalo per gli sciacalli
Le immagini di Silvia Romano avvolta dallo hijab musulmano al suo arrivo a Ciampino domenica 10 maggio dopo 18 mesi di prigionia hanno fatto in poche ore il giro del mondo. La cooperante di 24 anni non ha fatto in tempo a gioire per la sua libertà che lo shit storm contro di lei ha iniziato a infestare il web, e i titoli di quotidiani come Libero e il Giornale sono arrivati immancabili ad accusare il governo di aver liberato una “islamica”, visto che Romano ha fatto sapere di essersi convertita alla fede musulmana. Tra la stretta di mano del premier Giuseppe Conte e il saluto a distanza del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, la passerella in aeroporto ha dato immediata prova visiva del cambiamento annunciato. Prova che non ha lasciato indifferenti né i leoni da tastiera in cerca di un cavillo per attaccare l’intera operazione, né tanto meno chi, senza volerlo, può di fatto attestarsi una vittoria religiosa: Al Shabaab.
Il sorriso di Silvia Romano incorniciato dal velo islamico color verde acqua, celebrato nelle foto di famiglia insieme al premier, al ministro e agli uomini dell’Aise è un bel regalo per gli jihadisti artefici del rapimento della cooperante, che con la sua liberazione incassano in realtà una doppia vittoria. Da un lato, il presunto riscatto milionario pagato dal governo italiano, che si va ad aggiungere ai proventi dei sequestri che il gruppo ha compiuto con regolarità in questi anni in Somalia, ma anche in Kenya e in Uganda, e che lo hanno persino portato ad aprire decine di banche nel quartiere somalo di Nairobi, solo per investire i soldi incassati. Dall’altro, la narrazione positiva del rapimento, offerta dalla stessa Silvia, che ha definito “libera” l’adesione all’Islam e ha fatto apparire gli Al Shabaab come carcerieri compassionevoli, che hanno donato il Corano all’ostaggio su sua richiesta e sono riusciti a spingerla verso il loro Dio.
Quella tunica “verde Islam” sul corpo della italiana rapita in Kenya, unita al suo breve racconto, risulta così come un riconoscimento del monopolio di Al Shabaab sul credo religioso jihadista, che il gruppo rivendica sin dalla sua nascita nel 2006, sia nei confronti di Al Qaeda, cui ha aderito nel 2012, che dello Stato Islamico, a cui si si è avvicinato nel 2015. La conversione della cooperante li pone finalmente in una posizione di primo piano nel network jihadista globale dopo anni in cui l’attenzione mediatica intorno al gruppo si è limitata alle vicende particolarmente efferate. E con ogni probabilità le immagini della passerella a Ciampino verranno a lungo utilizzate per dimostrare all’opinione pubblica di riferimento, quella del mondo islamico, la loro superiorità ideologica e religiosa.
Un passo falso da parte del governo nella comunicazione politico-istituzionale della vicenda, pur gestita in modo impeccabile nei 18 mesi precedenti, che probabilmente ha visto nel ritorno a casa di Silvia Romano un’occasione di visibilità troppo ghiotta per rinunciare a uno scatto in più. E un modo di festeggiare una storia positiva in un momento in cui il Paese è scosso dalle conseguenze negative della pandemia. Come spiegato dall’esperto di politica internazionale e Medio Oriente Alberto Negri, gli altri Paesi occidentali che trattano con i gruppi terroristici, normalmente negano di aver versato loro denaro e evitano di mostrare gli ostaggi alle telecamere come in un reality show proprio per non alimentare la propaganda. I paesi anglosassoni da tempo non diffondono video del ritorno a casa degli ostaggi liberati per non far circolare immagini preziose per le operazioni psicologiche del nemico.
Nel caso di Romano, a fare le spese di questa gestione avventata della comunicazione, sarà la stessa Silvia, vittima dello sciacallaggio mediatico di chi non ha visto di buon occhio la sua storia sin da quando è stata rapita a novembre 2018 perché “se l’era cercata”. Adesso lo hijab ha regalato a questi avvoltoi l’immagine della terrorista che il governo si è permesso di riscattare con i soldi pubblici. Ma è troppo presto per dire cosa è accaduto e chi è veramente Silvia, perché il suo ritorno è appena iniziato. E benché sia probabile che nel racconto affidato alla psicologa che l’ha accolta a Mogadiscio la giovane donna sia stata sincera, non si può affermare con certezza che nelle scelta di aderire alla nuova fede, definita volontaria, non abbia subito alcun tipo di pressione, seppur inconsciamente.
Per elaborare il trauma che ha subito le occorrerà tempo e distacco, occorrerà che Silvia faccia i conti con il dolore e il senso di tutta la sua storia, il cui epilogo non cancella 18 mesi di sofferenza. Per questo, prima di offrire un racconto ancora prematuro alle nevrosi dei social, agli sciacalli da tastiera e alla strumentalizzazione di Al Shabaab, bisognava attendere, proteggerla, tenerla lontana dalle telecamere, magari scegliendo una cerimonia intima per accoglierla, riservata ai soli famigliari e anche a poche istituzioni, ma senza flash. Invece la narrazione “a caldo” della sua conversione si è rivelata un boomerang per chi ha voluto accendere i riflettori sul rimpatrio, che credeva di comunicare una storia positiva e si ritroverà a fare i conti con un successo sporcato dall’odio e dalla propaganda.
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