C’è una parola che, più di ogni altra, ti colpisce nel doppio, squallido, titolo con cui “Libero” e “il Giornale” hanno aperto questo lunedì mattina. E quella parola non è né “islamica”, né “ingrata” e neppure “schiaffo”. No. Quella parola (o, più esattamente, quell’aggettivo) è: “Felice”. In fondo, se ci pensate, è quello che non perdonano e non le perdoneranno mai: di essere felice. Di essere una giovane donna finalmente e profondamente libera, e di esprimerlo nell’unico modo in cui puoi esprimere un sentimento del genere: con un lungo, commovente, sorriso sbattuto in faccia su tutta la miseria, la cattiveria e la piccineria di migliaia di hater che da ore la stanno mettendo alla gogna sui social.
La vicenda di Silvia Romano, a guardarla con un minimo di lucidità e distacco, ha gli ingredienti destinati a far deflagrare come una bomba a orologeria quel confuso impasto di perbenismo, bigottismo, ipocrisia e maschilismo tossico di cui una parte enorme di questo Paese è imbevuto. E di cui – ci piaccia o meno – anche solo in minima parte, siamo impregnati tutti noi. L’immagine di una ragazza di 24 anni liberata dopo un anno e mezzo di prigionia che scende le scale di un aereo di Stato con l’intero corpo coperto da un lungo jilbab islamico tipico delle donne somale è un’immagine dall’enorme impatto visivo, culturale, psicologico, persino politico. La notizia della sua apparentemente spontanea conversione all’Islam, dopo essere stata per 18 mesi nelle mani di rapitori islamici, è – inutile negarlo – una torsione concettuale notevole rispetto all’immaginario che tutti abbiamo in mente. Ma è un lampo, a cui, se possiedi anche solo una vaga alfabetizzazione costituzionale ed emotiva, segue un’ondata spontanea di empatia e partecipazione. O, se proprio non riesci a spingerti così in là, quantomeno un sobrio, rispettoso silenzio.
E invece siamo in Italia. E allora, nel giro di poche ore, Silvia Romano – o, meglio, Aisha, il suo nome da convertita – è diventata il prevedibile bersaglio della più violenta campagna di odio disorganizzato nella storia recente dei social. Da Facebook a Twitter a Instagram, è tutto un fiorire di insulti beceri, teorie più o meno strampalate, il solito ginepraio di complottismo a buon mercato. Eppure, una volta che ti fai largo tra i commenti più mainstream e abusati (sul genere, per intenderci: “Quanto c’è costata?”), quello che resta sul setaccio è, ancora una volta, il più bieco repertorio di insulti sessisti e misogini che puntualmente accompagnano le donne che, per varie ragioni e con ruoli diversi, assurgono all’attenzione dell’opinione pubblica. È successo per anni con Laura Boldrini, è accaduto con Carola Rackete, e il copione si ripete identico oggi con Silvia. Il tutto con una morbosa attenzione per dettagli intimi che a nessuno verrebbe mai in mente neanche di menzionare se, al posto di Silvia-Aisha, ci fosse un uomo. Nell’ordine: “Come si è vestita?” “È grassa, altro che prigionia”. “È incinta di un neg***, chissà chi si è scop***”. “Si è sposata con rito islamico, perché non la mantiene suo marito?”, fino all’evergreen di questi raffinati psicologi da tastiera: “È ovvio, ha la sindrome di Stoccolma”.
La verità è che non le perdoneranno mai di essere una donna e una persona libera. Di essere partita, due anni fa, per andare in Kenya ad aiutare bambini che non hanno neppure l’accesso all’acqua potabile o all’istruzione, dopo che, per anni, ogni volta che qualcuno ha salvato un migrante nel Mediterraneo, gli hanno detto che dovevano “aiutarli in casa loro”. Non le perdonano di stare bene fisicamente e mentalmente, di non pesare 30 chili, di non essersi mostrata con il volto scavato e i lividi per le botte prese, perché una donna rapita – nella loro concezione – deve essere sofferente, stare male, altrimenti significa che è tutta una messinscena. Non le perdonano neppure di sorridere, invece di avere uno sguardo dimesso, contrito, quasi dovesse scusarsi per “i 4 milioni di euro che c’è costata”. Non le perdonano di indossare la veste islamica semplicemente perché non corrisponde all’immaginario che avevano in mente della giovane ragazza borghese e di buona famiglia finita nelle mani dei tagliagole islamici e che si salva grazie alla propria fede cristiana. E allora, pur di farla aderire ai loro schemi mentali, hanno deciso che è stata circuita, che è “sotto ricatto”, che non è lucida, che “è sotto choc, poverina, non sa quello che fa”. Tutto pur di non accettare quello che mai sarebbero in grado di ammettere: che Silvia-Aisha è, pure al netto del dramma che ha appena passato e le inevitabili conseguenze psicologiche con cui dovrà fare i conti, è una donna libera, autonoma, indipendente, con il sacrosanto diritto di pregare il dio che vuole e convertirsi a qualunque religione, senza dover rendere conto di niente a nessuno. Mai.
È sconvolgente, invece, notare come i campioni della libertà e della superiorità della cristianità contro l’Islam medievale e misogino, quelli che inondano tv e social con goffi panegirici sula libertà della donna, sono gli stessi che negano a Silvia-Aisha di essere semplicemente chiunque lei scelga di essere (influenzata o meno da qualcuno o da qualcosa non spetta a noi giudicarlo). Ancora una volta, gli ultracattolici da curva, i difensori della donna a targhe alterne, non hanno fatto con Silvia-Aisha nulla di diverso di quello che ogni giorno applicano a qualsiasi donna: decidere per lei cosa deve pensare, come vestire, dove poter andare, che lavoro può o non può fare, che tipo d’uomo sposare, persino quale dio pregare.
Per questo il sorriso di questa ragazza di 24 anni è così forte, potente, destabilizzante: perché in un colpo solo è riuscita a rovesciare secoli di perbenismo, pensiero unico e patriarcato con la sua plateale, sfacciata ambiguità. Non c’è traccia di verità assoluta in Silvia-Aisha. Non c’è il giusto o lo sbagliato, i buoni e i cattivi. C’è solo una ragazza di 24 anni che è sopravvissuta a una prova estrema con una forza e una tenacia sconvolgenti e che se ne frega di quello che voi aspettiate che faccia o dica. Il suo sorriso – persino il suo vestito – è un inno alla libertà e all’indipendenza scagliata come un sasso nello stagno di quest’Italia che affoga nei giudizi e nei pregiudizi e nelle etichette buone per tutte le stagioni. Che ne sia o meno consapevole, non c’è gesto più autenticamente laico e femminista di quello che ha compiuto ieri. Uno schiaffo in faccia non solo ai miserabili odiatori che l’hanno presa di mira, ma a tutti noi.
La sua veste, la sua conversione, la semplicità con cui ce lo ha comunicato mostrandocelo nella sua prima, iconica, immagine pubblica, tocca nervi scoperti che fanno parte del dna del nostro modo stesso di organizzare il mondo. Un dna che Silvia spariglia, scombina, rimette in discussione, in modo chiarissimo, persino urticante. È questo, in fondo, che disturba così tanto, e ci insegna a metterci sempre nei panni dell’altro, non solo quando è facile e comodo ma anche quando è difficile e meno immediato. Una grande lezione di libertà, e persino di laicità – sì, di laicità – a tutti quelli che straparlano di libertà e non si accorgono nemmeno di quanto violentemente la stanno calpestando. Bentornata Aisha. Bentornata a casa, qualunque essa sia.
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