La prima cosa che ti colpisce è il silenzio. Assordante, lancinante, surreale. Ad un anno esatto di distanza dal rapimento di Silvia Romano, ancora non abbiamo alcuna notizia certa e confermata sulla sorte della cooperante milanese 24enne, al di là di spifferi e indiscrezioni spesso di fonte incerta e prive di conferma ufficiale. L’ultima di qualche ora fa appena, che la vorrebbe in Somalia, spostata di prigione in prigione e addirittura usata come scudo umano.
Una notizia – se così la vogliamo chiamare – che segue a distanza di un paio di mesi l’indiscrezione secondo la quale sarebbe stata costretta a un matrimonio islamico. Un incubo che non riusciamo neanche a immaginare, e che è diventato mangime per la più squallida propaganda della destra sovranista, che vorrebbe fare di Silvia Romano un simbolo della retorica anti-islamica, del fallimento della narrazione “buonista” e terzomondista.
Il sottotesto non è neppure troppo nascosto e difficile da leggere: ecco chi sono davvero quelli che vorreste aiutare. E ancora: ecco cosa vi succede se provate ad avventurarvi fin laggiù, se vi illudete di “soddisfare le vostre smanie di altruismo – per dirla alla Gramellini – in un villaggio sperduto nel cuore della foresta, invece che in qualche mensa nostrana della Caritas”.
Ogni (rara) volta che il nome di Silvia Romano torna alla ribalta delle cronache si finisce per scontrarsi con questa sorta di pelosa compassione paternalistica di fronte a una giovane ragazza che ha avuto la “colpa” di partire, rischiare, sporcarsi le mani. Ci sentiamo ripetere di continuo da volontari e cooperanti da tastiera che l’unica soluzione è di “aiutarli a casa loro”. Ma, quando una ragazza di 23 anni (oggi 24, compiuti il 13 settembre scorso, in prigionia) lascia la propria comoda e agiata vita milanese per aiutarli davvero a casa loro, la trattiamo come una specie di ingenua idealista con sogni troppo grandi per la realtà.
Ad alimentare questo clima è stato, prima di ogni altra cosa, il silenzio, l’assenza di ogni notizia o segnale a cui appigliarci. È sempre andata così: dove non arriva l’informazione tradizionale, quello è lo spazio in cui si insinuano fake, bufale, false piste e depistaggi che finiscono per allontanarci, giorno dopo giorno, dalla verità. E, al tempo stesso, contribuisce a tenere bassi i riflettori dell’opinione pubblica, quasi inesistenti le pressioni su politica e governo.
Fonti vicine alla Farnesina raccontano di un lungo e paziente lavoro diplomatico quotidiano che non si è mai fermato dal 20 novembre 2018. Nessuno ha mai messo in dubbio la competenza dei servizi segreti italiani, considerati a ragione tra i migliori al mondo nella gestione di casi come questi. Quello che, però, in questi mesi infiniti è sempre venuto a mancare è un’adeguata pressione mediatica, che spesso in passato in casi analoghi è stata la chiave decisiva per arrivare a un lieto fine.
Dopo mesi di silenzi e balbuzie da parte del governo gialloverde, da agosto in avanti ci si sarebbe attesi uno scatto in avanti nella gestione del dossier che, nei fatti, è rimasto sulla carta. Ci ritroviamo, così, ancora oggi, sospesi in questo surreale limbo fatto di attese, mezze frasi, silenzi imbarazzati, impotenti di fronte a una vicenda di cui la politica intera cerca di stare il più possibile alla larga.
In gioco non ci sono voti da prendere, consensi da mungere, ritorni di immagine da ottenere, ma solo una ragazza di 24 anni che nessuno sa realmente dove si trova, nelle mani di chi e in quali condizioni. Silvia è materiale radioattivo da maneggiare con cura. Chi lo fa corre il rischio di essere contagiato. Col risultato che, ogni giorno in più di silenzio, è un giorno in meno di speranza di vedere Silvia Romano tornare a sorridere come in ognuna di quelle decine di foto che ci sono passate davanti agli occhi in questo lunghissimo anno. Squarciamo quel silenzio. Prima che sia troppo tardi.