Capita, talvolta, che i luoghi si trasformino. Capita che la piazza storica di una formazione politica assuma, con l’andare del tempo, tutt’altri valori e significati. Capita, ad esempio, che San Giovanni, a Roma, la Camelot del PCI e della CGIL, si trasformi dapprima nella fortezza del M5S e poi, profanazione ancor più dolorosa, nel palcoscenico ideale della nuova destra a trazione salviniana.
Era accaduto anche a Bologna, dodici anni fa, quando la piazza simbolo del comunismo realizzato era stata presa da Beppe Grillo per il primo, significativo “V-Day”, l’innesco del MoVimento 5 Stelle che sarebbe nato, come ovvia conseguenza, due anni dopo a Milano.
Ebbene, quella piazza, lo scorso 14 novembre, è tornata a sinistra. Il merito va a quattro ragazzi, i promotori delle cosiddette Sardine, di cui colpisce non solo la maturità ma anche la disarmante naturalezza. Perché sono nati e hanno avuto così tanto successo, al punto che essi stessi si sono meravigliati non poco di un’affermazione così repentina? Perché hanno colmato un vuoto.
Si sa, infatti, che la politica non concepisce il vuoto, che quando un soggetto viene a mancare, un altro ne prende il posto. E Mattia Santori, di cui sentiremo parlare ancora a lungo, ha avuto il merito di condurre in piazza una rabbia meno avvelenata ma non per questo meno profonda rispetto a quella grillina, decretando di fatto la scomparsa del soggetto che per un decennio ha incanalato la maggior parte delle pulsioni anti-politiche o, per meglio dire, anti-sistema.
Il punto è che il M5S è franato, non esiste più. Ciò che vediamo all’opera nei palazzi romani, in queste settimane di trattative e discussioni estenuanti sulla Legge di Bilancio, è cosa ben diversa rispetto alla formazione scapigliata che entrò in Parlamento quasi sette anni fa, con tante buone intenzioni e un’ingenuità e un’inesperienza che le furono fatali in più di un’occasione.
Il M5S dimaiano è tutt’altro rispetto ai primi meet-up, a quelle unioni di cittadini, per lo più di sinistra, che non ne potevano più dei silenzi e delle titubanze di un’Unione la cui stagione di governo, nel 2007, mostrava ormai la corda.
Di Maio è altro, è sempre stato altro. Non a caso, la sua ascesa ai vertici è avvenuta in seguito, dopo l’ingresso trionfale nelle istituzioni, quando l’eskimo delle origini non bastava più e servivano giacca e cravatta per accreditarsi nei salotti istituzionali e al cospetto delle grandi organizzazioni internazionali.
Di Maio incarna un grillismo di potere, romanocentrico, di manovra e di trattativa: nulla a che spartire con l’impeto “Sturm und Drang” di un Fico e di altri grillini originari, compreso lo stesso Pizzarotti che, in quel di Parma, ha cercato vanamente, per anni, di instradare il MoVimento sulla via del riformismo in salsa emiliana.
Il problema del M5S è che è ontologicamente incompatibile con qualsiasi discorso di potere, salvo snaturarsi e introiettare tutti i difetti dei soggetti che ha combattuto in precedenza. Il M5S ha un senso all’opposizione, quando il grido e la battaglia, talora anche estrema, ne esaltano la purezza e ne compattano le varie anime.
Al governo, dove la mediazione è essenziale e bisogna entrare nell’ottica di dover scendere a patti con gli alleati, il M5S smarrisce tutta la sua carica innovativa e, non avendo la solidità e la storia dei propri interlocutori, anzi rifiutando il concetto stesso che esistesse qualcosa di buono prima della propria nascita, finisce inevitabilmente con l’incartarsi.
Le Sardine non sono nate dal nulla. Sono nate perché esprimono un’esigenza: politica ma diremmo anche culturale, sociale, civica. Le Sardine nuotano agilmente in un mare di macerie, in un’Italia devastata dal fallimento di tutte le esperienze politiche che abbiamo visto all’opera negli ultimi dieci anni: il berlusconismo della fase declinante e olgettiniana, la tecnocrazia montiana, la transizione lettiana, la rottamazione di Renzi, la camomilla di Gentiloni e la rivoluzione rimasta sulla carta del contratto del governo gialloverde.
Nessuno può più dire “io non c’ero” né porsi come il nuovo inizio, l’anno zero, la svolta epocale. In questo, il giovane Mattia ha rivelato una saggezza sorprendente: sa quali tasti suonare e si guarda bene dal riecheggiare note ormai stonate, invecchiate, improponibili.
L’anno zero ha stancato, di ripartenze e nuovi inizi ne abbiamo visti troppi per crederci ancora, di rivoluzionari ne sono saliti sul palco a frotte e, poco dopo, si è capito che una parte di essi aveva un prezzo e l’altra non aveva le competenze adeguate per farsi carico della cosa pubblica.
Le Sardine non invocano la presa della Bastiglia, non promettono l’impossibile, non annunciano palingenesi e non gridano. Il loro silenzio, la gioiosità delle folle che hanno invaso le piazze di tutta Italia appartengono, semmai, alla visione del mondo delle nuove generazioni, intenzionate a riprendersi almeno una parte di ciò che il trentennio liberista ha sottratto loro.
Di Maio, dunque, non ama le Sardine perché hanno tolto acqua al mare delle sue ambizioni. Sa bene, anche se non lo ammetterà mai, che in quei giovani buona parte della base grillina rivede se stessa, in una sorta di amarcord felliniano che in Emilia Romagna può risultare ancora più efficace che altrove.
E sa anche, il capo politico dei 5 Stelle, che una parte dei manifestanti ittici dodici anni fa era in quella stessa piazza ad ascoltare Beppe Grillo, il che rende l’intero impianto del M5S se non altro obsoleto.
Di Maio e Renzi hanno rappresentato la coda di una stagione ormai morente: quella dell’elogio del capo e del leaderismo spinto all’estremo. Le Sardine, al contrario, poiché prive di una leadership riconosciuta, conducono la marea protestataria oltre le Colonne d’Ercole dei Girotondi, della stagione di Moretti e Cofferati e persino al di là del Popolo viola e di altre piazze ugualmente gremite ma, forse, fin troppo organizzate.
Per assurdo, senza volerlo, fra le Sardine uno vale davvero uno e l’utopia grillina trova un’anima, una rappresentanza, una visione del mondo. La differenza, enorme, è che questi manifestanti non vogliono rottamare nessuno né andare oltre la destra e la sinistra: vogliono, semmai, che la sinistra si liberi dell’ossessione blairiana e moderatista e che i cittadini tornino ad avere un peso nelle decisioni politiche.
Per questo Di Maio, vedendole, ha capito che o torna alle antiche occupazioni o getta la maschera e si butta a destra, con un soggetto tutto suo di indole vagamente salviniana o, comunque, compatibile con la natura dell’ex alleato leghista. Un altro futuro, almeno per lui, non c’è.
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