Sardine contro Salvini: Marco Revelli risponde a Barbara Spinelli
Devo dire che continuo a trasecolare. Ma come? A un certo punto, inaspettate, si materializzano un centinaio di piazze piene di gente che canta Bella Ciao, si dichiara antifascista, sventola il testo della Costituzione, si oppone all’imbarbarimento che tanto in questi mesi ci ha angosciato… Ci si aspetterebbe non dico un Te Deum generale, ma quantomeno un sospiro di sollievo e un sorriso di gratitudine per chi in quelle piazze c’è stato e quelle piazze ha innescato alleviando un po’ quella nostra angoscia. E invece… Invece, una selva di ditini alzati, ammonenti o stigmatizzanti. Una sequela di “sì… ma”. Una caterva di domande sulle soluzioni proposte per lo stato del mondo.
Diffidenza, sarcasmo, ironia non provenienti dalla controparte naturale della mobilitazione, i giornalacci della brutta destra salviniana (quelli usano direttamente il dito medio e il turpiloquio che gli è proprio), ma da una sinistra diffusa, apparentemente esigente in realtà sordamente osteggiante tutto ciò che non corrisponda millimetricamente al proprio profilo microcosmico. Ai propri tic e alle proprie idiosincrasie. Alla propria vocazione a marcare distanze più che a costruire assonanze.
I social sono pieni di questi brontolamenti, in parte interroganti in parte scomunicanti. E talvolta, in qualche raro caso, questo mood prende la forma dell’argomentazione alta e motivata, sul modello della buona vecchia polemica politica del tempo in cui parlare di “confronto ideologico” non appariva una bestemmia (ne è un esempio il pezzo di Tomaso Montanari sul sito di Volerelaluna).
Qui io vorrei confrontarmi con quello che considero uno dei più nobili, e articolati tentativi di esercitare sul fenomeno delle “sardine” una sorta di “critica-critica” non reticente (anche se, a mio parere, distorcente). Intendo riferirmi al recente articolo di Barbara Spinelli sul Fatto Quotidiano, dal titolo ancora in qualche modo “aperto” – Le sardine in bilico tra il mare aperto e la scatola – in realtà nel contenuto in ampia misura liquidatorio.
Il J’accuse di Spinelli si concentra su quattro capi d’imputazione: 1) “Le sardine non sono contro l’establishment, né italiano né tantomeno europeo”, il quale ha nel populismo il loro stesso nemico. 2) Il consenso – anzi “l’entusiasmo” – che riscuotono è troppo “generale e trasversale” per essere politicamente significativo. 3) Esprimono verso il populismo assunto come nemico principale un atteggiamento di “sorda durezza” perché “non conoscono le bassezze della disperazione, della rivolta contro disuguaglianze sociali e povertà”. 4) Concentrano la propria opposizione su Matteo Salvini ma “la malattia dell’Italia non è oggi Salvini” bensì “l’ingiustizia sociale, la diseguaglianza e il furore dei declassati”.
Personalmente, pur riconoscendo la serietà dell’argomentazione, dissento su tutte e quattro queste affermazioni. Ma soprattutto considero “fuori luogo” il taglio generale del discorso, frutto di un fraintendimento sulla natura del “fenomeno”, trattato – a mio avviso impropriamente – come un “soggetto”, addirittura un “soggetto politico”, quando in realtà è un “fatto”.
L’elemento di rottura di questa stagione di ritrovata mobilitazione consiste in quella moltitudine condensata nello spazio pubblico per eccellenza, la Piazza della Città. Il suo messaggio politico è tanto elementare quanto potente: c’è anche “un altro popolo” e si mostra, si vede, esiste. Ragion per cui il populismo verde-bruno di ultima generazione non può vantare il monopolio “degli italiani”. Punto.
Trattare quella realtà in atto come se fosse un’entità politica già bell’e fatta, col suo programma, il suo progetto, la sua identità univoca e formata, la sua voce e i suoi porta-voce formalizzati, è un errore. Significa pretendere da quelle piazze quello che non possono dare (le risposte su cui tutte le sinistre del mondo si stanno misurando, fallendo). Significa imporre loro un ruolo di supplenza che sa di mission impossible. Oppure, pur senza volerlo – vecchio vizio “politicista” -, ridurle alla loro in fondo casuale leadership, con un’operazione, appunto, “riduzionistica” che costringe nel fondo dell’imbuto una complessità vitale irriducibile.
Detto questo, vengo ai punti. Non so bene cosa voglia dire che “le sardine non sono contro l’establishment”, come se esistesse un solo establishment. E questo fosse tutto, come un sol uomo, contro il populismo. Mi pare che soprattutto negli ultimi tempi venga emergendo un bel pezzo di establishment, cioè di “poteri” generalmente forti, pezzi di alta finanza, lobbies di varia natura, legale e illegale, interessi geopolitici interni ed esterni all’Europa, che “scommettono” sulla risorsa nazional- populista.
Il caso inglese dovrebbe insegnarcelo: davvero dietro Boris Johnson c’è solo la “disperazione dei diseredati” della globalizzazione, dei disoccupati delle Midlands e dei declassati dello Yorkshire? Dietro il suo populismo autoritario non c’è nessun gnomo della City o Lupo di Wall Street interessato a fare della piazza finanziaria londinese un paradiso fiscale peggiore di quanto non sia già adesso, al riparo dei (sia pur labili e conniventi) controlli dell’Unione e dei possibili giudizi della Corte europea dei diritti umani? Sotto la landslide del suo successo non c’è una montagna di soldi di chi ha investito sulla Brexit come si farebbe su un titolo in borsa promettente, e che ora ne incasserà i dividendi? Così come per i neo-sovranisti di Visegrad, non ci sono “dietro” o “sotto” interessi potenti? Capitali consistenti, nazionali e globali?
Il termine establishment è un’astrazione, come lo è d’altra parte il termine populismo: contengono entrambi una materia articolata, realtà diverse e a volte contrastanti, e oggi non tutto l’establishment è cosmopolita, formalmente democratico, politicamente corretto e genericamente “progressista”. C’è una parte – temo crescente – di establishment che è in vario modo nazionalista, più o meno tacitamente autoritaria, politicamente scorretta (fino all’illegalità) e intrinsecamente reazionaria. Il fascismo si affermò in Europa quando il suo sovversivismo delle origini si saldò con una parte potente di establishment. Vediamo di non ripetere quella brutta storia.
Allo stesso modo per il “populismo”: quello di oggi – che nel nostro recente libro con Luca Telese abbiamo chiamato Turbopopulismo – ha ormai poco a che fare con il neo-populismo delle origini, quello che denunciava i limiti di rappresentanza della democrazia in nome di un suo ampliamento, quello del Beppe Grillo che combatteva il Tav Torino Lione e presidiava le assemblee degli azionisti Telecom, il populismo ancora trasversale con una buona metà dell’anima a sinistra.
È, questo – come per l’Inghilterra, per l’est europeo di Visegrad, per il Front francese, per l’Afd tedesca -, un virulento aggregato di destra estrema, autoritario, gravido di razzismo e revanscismo nazionalistico, rivendicante “pieni poteri” e “porti chiusi”, intollerante e prepotente, rozzo ma ben ammanicato con gli ambienti che contano. Ho l’impressione che Barbara Spinelli non registri questa differenza rivelatasi nell’ultima fase, in particolare nel periodo del governo giallo- verde, e continui a usare il termine populismo alla vecchia maniera, cosa di cui mi piacerebbe poter discutere direttamente con lei come si faceva un tempo.
Sul punto due sarò velocissimo. Non considero la generalità e la trasversalità di una mobilitazione un limite, anzi le considero un pregio. Un “valore aggiunto”, acquisito proprio grazie al carattere di “rivoluzione gentile” di quegli appelli e di quelle piazze.
Il punto tre, invece, richiede più riflessione, perché costruito in parte su un cortocircuito in parte su un’idea che non condivido. Qui Barbara Spinelli se la prende con un’affermazione contenuta nel Manifesto delle sardine – “Grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare” – interpretando da una parte quella indisponibilità all’ascolto come se fosse diretta a quel pezzo di società in sofferenza che vota Salvini e costituisse una indisponibilità ad ascoltare, comprendere e interpretare quella disperazione (il corto-circuito); e dall’altra parte spezzando una lancia a favore del “diritto all’ascolto” di tutti, amici e nemici, Salvini compreso (“Non ho mai sentito un antifascista … dire che esistono categorie di avversari o perfino nemici politici privati di tale diritto”).
Nel primo caso mi sembra una forzatura ermeneutica: rifiutarsi di ascoltare gli sproloqui di Matteo Salvini su tutte le spiagge d’Italia e su tutti i canali dell’etere nonché le sue gragnuole di post sui social non significa ignorare la voce dei sofferenti sociali, dell’Italia che non ce la fa a tenere il ritmo della corsa e annega nel rancore il proprio bisogno di giustizia, a meno di creare un’identificazione stretta tra il leader e la massa che lo vota, o peggio tra il Capitano sovranista con le sue retoriche politiche e l’intera area del disagio con le sue sofferenze sociali.
Nel secondo caso credo proprio che nessun “antifascista” abbia mai potuto concepire l’idea di un dovere di ascolto di chiunque, amico o nemico che sia, demagogo o riflessivo, cacciaballe o rigoroso. Nella mia città andiamo fieri per aver sempre impedito, fin dagli anni immediatamente successivi alla liberazione, ai fascisti di parlare in piazza (ai boia di ieri di venir a parlare di corda in casa dell’impiccato, e nel cuneese le Brigate nere ne impiccarono tanti di partigiani): Barbara vorrebbe dirci che al contrario avremmo avuto l’obbligo civile di ascoltarli? E comunque io rivendico fieramente il mio diritto di “non ascoltare” i blasfemi, gli incivili, i disumani, gli insultatori delle persone e delle idee, gli istrioni, i retori e demagoghi, ecc. ecc. ecc… che peraltro non ascolteranno mai noi.
Poi c’è l’ultimo punto, il più importante, quello che sintetizza un po’ tutti gli altri, e che aveva costituito anche il baricentro dell’intervento di Tomaso Montanari: “la malattia dell’Italia non è Salvini”. Salvini sarebbe in fondo un epifenomeno. La malattia è il “sottostante”: è la domanda insoddisfatta di “giustizia sociale”, è lo scandalo della diseguaglianza, la disperazione di chi si è visto scivolare sempre di più verso il margine e verso il basso, e ha misurato la maledizione della solitudine. Considerazione vera, ma solo in parte.
È vero infatti che l’onda nera salviniana (ma non solo, anche meloniana, con frange e dintorni) è una forma tipica di una società malata, nel profondo. Ma, se vogliamo continuare nella metafora medica, non è che quella forma sia ininfluente: è un classico sintomo che rivela la malattia, certo, ma che fa male, e soprattutto, in questo caso, retroagisce sul male stesso, virulentizzandolo, offrendogli codici espressivi e mezzi organizzativi per diffondersi, minacciando e lesionando le architetture anatomiche (le istituzioni). E poi, passando dalla Scienza medica alla Scienza politica, non c’è nesso automatico tra il disagio sociale e l’espressività verde-bruna, tra il declassamento sociale e la fascistizzazione politica. Per usare una dicotomia marxiana: tra struttura e sovrastruttura.
Il disagio sociale può orientarsi verso una risposta trasformatrice e tendenzialmente egualitaria (un progetto “socialista” di società, per dire) o verso una reazione regressiva, autoritaria e fascistoide. Dipende da chi ne conquista l’egemonia. E in questo il ruolo delle élites politiche non è irrilevante: un’“élite negativa”, come definirei quella di Salvini, può spingerci verso un baratro che dovremmo ad ogni costo evitare non recedendo dal contrasto alle sue azioni nell’attesa di aver risolto il problema delle diseguaglianze… Cavarsela dicendo che non è lui “il male” mi sembra una via di fuga dalla responsabilità che non condivido.
In un illuminante commento al recente voto inglese, su un sito dal promettente nome I Diavoli, si dice che “tra la speranza di costruire il socialismo e la comodità di rintanarsi nel fascismo, Andy Capp ha scelto la seconda”. Andy Capp è il celebre personaggio delle strisce del fumettista inglese Reg Smythe, a suo tempo diviso tra miniera e pub, nato nella piccola cittadina portuale di Hartlepool nel Nordest, un tempo pezzo solido del “red wall” labour oggi, svuotata di lavoro e vita, ventre molle dove Tories e Brexit party minacciano di farla da padroni. Cerchiamo di impedire ai demagoghi nostrani di fare altrettanto.
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