“Esperta di zoccolaggine”. Pensavo che fosse un colpo di sole quello che si è abbattuto su Alessandro Sallusti ieri portandolo ad inveire in maniera scomposta contro Selvaggia Lucarelli. È evidente in queste parole un grottesco accecamento, che per giunta si manifesta sulla scia di una labile pretestuosa polemica modellata sull’eco di una trasmissione televisiva. Ma anche questo obnubilamento merita di essere indagato, e – purtroppo – messo in connessione con una vera e propria tendenza del giornalismo italiano.
Dal caso Iotti (“Brava a letto e in cucina”) al caso Raggi (“La patata bollente”), al caso Lucarelli (“Zoccolaggine”), ormai, dato l’affollamento e la sovrapposizione, non si può più dire che siano solo singoli episodi: si tratta di una miserevole nouvelle vague, una sorta di “Misoginia social club” che cerca di imporre il suo canone al mondo come se fosse una nuova accademia di bon ton.
Premessa: proprio in questi giorni abbiamo presentato a Roma l’ultimo pamphlet di Lilli Gruber (“Basta!”, Solferino), un libretto rosa tutto fondato sull’idea che le donne nella società italiana continuano ad essere discriminate e svalutate, che siano vittime abituali di pregiudizi e di stereotipi. Se il libro è giunto alla sesta edizione in due mesi, un motivo c’è: contiene una tesi tagliata e netta, documentata con scrupolo secchione e prosa aggressiva.
Per tutti quelli come me, che a questo libro ustorio si accostano da maschi, è una lettura scomoda, con cui è difficile fare i conti. Al punto che mi sono scoperto ad affrontarlo con un riflesso difensivo del tipo: “Sì, è vero, ma…”. Perché è vero tutto quello che Lilli Gruber scrive e cita (dati sulla discriminazione salariale delle donne compresi), ma se leggi “Basta!” con i tuoi occhi di uomo è possibile che ti resti in mentre questo retropensiero, una domanda: davvero si può sostenere che le donne in Italia siano metodicamente e socialmente vittime di misoginia? Davvero siamo ancora fermi, come pensa la Gruber, a mezzo secolo fa?
Poi ti arriva questo editoriale, come una tegola sulla testa, e ti apre gli occhi: “Selvaggia Lucarelli esperta di zoccolaggine”, scritto a chiare lettere sulle colonne di un prestigioso quotidiano nazionale. E ti chiedi: da quale tipo di grotta può saltare fuori questa blasfemia? E poi rileggi quelle righe: “Esperta di zoccolaggine”. E finisce tutto.
Credevo che Sallusti fosse stato arricchito, in questi anni, da esperienze drammatiche pubbliche e personali di cui siamo stati testimoni: in primo luogo una difficile operazione cardiaca con probabilità di essere trasferito al camposanto. E prima ancora la vicenda incredibile – oggi quasi dimenticata – dell’arresto per le cause raccolte da direttore, addirittura il tentativo di “evasione” (dagli arresti domiciliari) con un gesto che all’epoca mi sembrò stare a metà strada tra la disubbidienza civile e l’impresa da kamikaze. La vicenda si era chiusa solo per effetto di una provvidenziale grazia. Tutte cose di cui ho sempre pensato di trovare traccia nei sorrisi dolenti di Sallusti.
Insomma, anche quando il direttore de Il Giornale – è accaduto su La7, a Otto e Mezzo – sostiene che sono “stupido” (perché critico Mittal che vuole mandare a casa 5mila operai) me ne frego. Gli rispondo per le rime, ovviamente, e penso: avrà una idea gladiatoria del giornalismo, ma almeno colpisce e incassa con uguale spirito. Poi, però, un giorno leggo che scrive “esperta di zoccolaggine” e salta ogni paletto. Saltano i confini del galateo, del politicamente scorretto, il senso del duello e della sfida, salta tutto. E mi viene in mente il grido della Gruber: “Basta!”.
Credo che Sallusti dovrebbe essere condannato non a gravi pene pecuniarie, non al carcere, ma a leggere il pamphlet della conduttrice di Otto e Mezzo e a ripeterlo a memoria , dopo essere stato interrogato con rigore penitenziale, davanti a una qualche arcigna commissione di salute pubblica (possibilmente in diretta live, magari proprio da Barbara D’Urso). Anche perché il suo colpo di sole non è più un caso isolato.
Mercoledì scorso ero ospite a l’Aria che Tira con Vittorio Feltri. Feltri – la Merlino stava dando questa notizia – è sotto procedimento per un celebre titolo di Libero in cui si definiva “Patata bollente” Virginia Raggi. Il direttore editoriale ha spiegato: “Il titolo non aveva nessun doppio senso sessuale, dire ‘patata bollente’ significa fare riferimento ad un argomento spinoso, e poi il direttore del giornale non sono io: è Pietro Senaldi, che cosa volete da me?”. Era già seccato.
Richiesto di un parere sul tema, ho provato a dire una cosa di cui sono convinto: “Feltri, o chiunque difenda quel titolo, non va giudicato da un tribunale o da una commissione dell’ordine. Ma va detto anche che il titolo aveva un chiaro e innegabile doppio senso sessuale: tant’è vero che nel sommario c’era un riferimento allo stato sentimentale della sindaca di Roma (e addirittura uno alle ‘olgettine’)”.
A quel punto Feltri si è imbufalito e ha abbandonato lo studio attaccando la Merlino: “Non sono venuto da te per farmi processare! Vi mando a quel paese e me ne vado!”. Se n’è a andato davvero (curioso: ma cosa avrebbe dovuto fare la Raggi, se fosse suscettibile come lui?).
Ho pensato che Feltri anziché negare e scaricare su altri avrebbe dovuto difendere Senaldi. Ma poi, sempre in questi giorni, ho visto Pietro Senaldi difendersi lui stesso – stavolta a Tagadà– sulla vicenda incredibile dell’articolo pubblicato (sempre sullo stesso quotidiano) a proposito di Nilde Iotti. E in questo caso Senaldi, esattamente come Feltri dalla Merlino, ha negato ogni cosa, e non ha voluto assumere la sua responsabilità, sostenere quella posizione. È arrivato persino a dire che era un modo per sottolineare il valore “umano” della Iotti: “Ma dove sarebbe lo scandalo? Se qualcuno dice a me che sono bravo a letto io lo prendo come un complimento”. Giuro, ha detto davvero così. Tuttavia io non ho mai visto una prima pagina in cui si titolare su qualunque uomo definendolo “mezza pippa” o “cazzone”.
Ed ecco il caso Sallusti che, partendo da una polemica televisiva in un programma della D’Urso tra un giornalista (Sergio Vessicchio) e la conduttrice di Live, scrive: “Vessicchio ha sfogato il suo odio contro il gentil sesso dando di fatto e in diretta delle zoccole a Barbara D’Urso e alle sue ospiti”.
Poi Sallusti aggiunge: “Nella contesa che ne è seguita un’altra donna, Selvaggia Lucarelli, ha preso le parti di Vessicchio: ‘Sante parole riassumo il suo post a Vessicchio va ridata la tessera da giornalista’. Non so – osserva Sallusti – se la Lucarelli moralista della lobby del Fatto Quotidiano, quella delle due morali, cioè una per loro e un’altra per noi parli in quanto esperta di zoccolaggine o di giornalismo, professione a cui – scrive Sallusti – è ufficialmente approdata solo lo scorso anno nel sottoelenco dei pubblicisti, nonostante – conclude il direttore de Il Giornale – da anni ci inondi di suoi scritti nessuno dei quali gli è valso il Pulitzer”.
Gran finale: “Più probabilmente la Lucarelli, come tante donne, è soltanto accecata dall’invidia per le donne belle e di successo, è invece attratta dagli uomini di successo”. Insomma, una catena incredibile di grotteschi stereotipi: la Lucarelli diventa donna gelosa, che corteggia i maschi, e naturalmente “esperta di zoccolaggine”.
Ma cosa aveva detto? Si era permessa – pensa tu – di fare un tweet sarcastisco sulla vicenda (sia su Vessicchio che sul programma) in cui diceva: se Vessicchio dice che Live fa schifo il tesserino glielo devono ridare. Un attacco del tutto spropositato, dunque, pretestuoso. Ma se provi a collegare questi tre recenti episodi ciò che resta – oltre la Lucarelli, la Raggi e la Iotti – è questo: una brutta lingua sessista travestita da calambour per caserme.
Stereotipi, sessismo e persino difficoltà ad ammettere, prendersi le proprie responsabilità e chiedere scusa. È una lingua che si alimenta di un malinteso senso di sdoganamento, e che dieci anni fa non sarebbe stata possibile: perché l’Italia maschilista degli Cinquanta non sentiva il bisogno di alzare la testa sui giornali nel segno dell’esibizionismo e della goliardia.
L’Italia dei maschi fragili di oggi evidentemente vuole compensare: ed è qui che nasce il simpatico e sboccato inconsapevole coro di colleghi che tirano il sasso e nascondono la mano. Avete mai letto Sallusti (o Feltri, o Senaldi) dire di qualche loro avversario (maschio) che è un esperto mettinculo? Che batte? Che ha il cazzo moscio? Che corteggia direttrici per fare carriera? Ovviamente no.
Non sono mai stati teneri con nessuno, ovviamente, ma quando si parla di un uomo non si entra mai nella sua sfera sessuale, non si valica il recinto del corpo, non si dice – nemmeno per scherzo – che sia di facili costumi se ha tante fidanzate. Anzi, se ha tante fidanzate, si pensa e si scrive che sia un fico, anche se è un vecchio bavoso avvizzito (gli esempi eccellenti non mancano). Si glorifica la sua fama di conquistatore senza sospettare nemmeno che le spasimanti siano appese al portafoglio (non per rispetto di loro, ovviamente, ma per rispetto di lui).
Ed ecco perché non è un paradosso che in tempi non lontani alcuni di questi colleghi glorificassero le olgettine, vere e proprie martiri civili. La cosa divertente è che il “Misoginia social club” pensa di essere molto trasgressivo e anticonformista. Credono che sia piacevolmente provocatorio scrivere “tette”, “culo”, “zoccola” e “patata” se parlano di una donna. La cosa buffa è che si sono convinti di essere moderni e anticonformisti, mentre invece sono obsoleti e (soprattutto) molto prevedibili.
Per questo devo fare autocritica: ha ragione Lilli Gruber. Di fronte al “Misoginia social club” bisogna dire e fare solo poche semplici cose: sorvegliare, punire e dire una cosa semplice: “Basta!”.