“Lei aveva la biancheria intima quella sera? Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina? “. Il libro bianco e il libro nero.
La musica leggera e le parole asciutte del dolore. Le canzoni sulle donne e le loro deposizioni nei processi. E i vestiti di Sanremo. E le chiavi di casa, ovviamente. La colpa e la vergogna. La semplicità che uccide la retorica. Dodici minuti appena.
Tutti oggi scrivono che il monologo di Rula Jebreal a Sanremo è stato “uno choc”, ma nessuno spiega perché. Fantastico. Tutti oggi applaudono, ma nessuno sembra ricordare che, solo pochi giorni fa, Rula Jebreal non avrebbe dovuto parlare su quel palco: “ingrata”, “anti italiana”, “filo-palestinese”, “antisemita”, “troppa politica”.
Lode a Fabrizio Salini che l’ha rimessa lì, dopo che una campagna di stampa aveva provato a delegittimarla. Applausi a chi l’ha difesa. Ma il senso del ridicolo suscitato da quelle piccole diffamazioni resta nell’aria, come un retrogusto sapido nell’ora del trionfo.
Alla fine è quasi bello che l’Italia sia il paese smemorato che abbiamo di fronte, che all’ingiuria si sia sostituito l’applauso, che adesso i trogloditi del ridicolo partito No-Rula tacciano. Dimenticare aiuta.
E alla fine è bello che Rula abbia vinto la su sfida contro il pregiudizio – quello contro di lei e quello contro le vittime della violenza – mettendo tutta se stessa in quei dodici minuti: il racconto della madre che si dà fuoco perché ha subito violenza, gli anni dell’orfanotrofio, le parole contundenti che arrivano dai tanti processi subiti da chi è stata ferita in questi anni, sui giornali, in tv e nelle aule dei tribunali.
E poi, ovviamente, i dati. Nudi, crudi, dolorosi da ricordare: “In Italia – ci ricorda Rula – in questo magnifico Paese che mi ha accolta, i numeri sono spietati. Lo scorso anno in media 88 donne al giorno hanno subito violenza e abusi. Una, ogni 15 minuti. Ogni tre giorni è stata uccisa una donna. E nell’85 per cento dei casi, il carnefice – ha spiegato la giornalista – non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina”.
È utile ricordare anche oggi le parole della vigilia, perché sono state un enorme castello di carte che stava per coprire la realtà di questo monologo: Rula non è stata “anti-italiana”, ma filo italiana, ovvero dalla parte dell’Italia migliore.
Non è stata “palestinese”, ma donna, senza aggettivi o bandiere, ovvero dalla parte di tutte. Non è stata “antisemita”, ma fiera nemica del femminicidio, dell’omofobia e di tutte le violenze, questo sì.
“Lo shock” c’è stato, dunque, ma non nel senso “sanremese” del termine. Non è stato cercare scandalo, ma dare un nome alla realtà. E lo shock non è stato quello che si è prodotto in teatro, per chi era in platea, o a casa, per noi che abbiamo ascoltato o letto le parole di Rula.
Lo shock sarà l’onda di ridicolo che attraverserà un’aula di tribunale, a partire da domani. Quando qualche avvocato improvvido chiederà: “Lei come era vestita?”. “Aveva biancheria intima quella sera?”. “Trova sexy gli uomini in divisa?”.
E sarà sommerso: dal ridicolo e dalla vergogna. Soprattutto perché, se è tra quelli che non ha sentito il monologo di ieri, ancora non sa che le parole della vergogna – anche grazie a Rula – sono bruciate per sempre.