Riccardo se n’è andato, a 92 anni: l’uomo che fece cadere il muro di Berlino non c’è più. E non è facile raccontare in un articolo il respiro lungo di questi trenta incredibili anni che vanno dalla fine del muro più alto della storia ai giorni nostri. Difficile, forse impossibile. Quindi ci provo.
Per prima cosa dobbiamo sforzarci di immaginare quanto sia possente l’architettura della storia che abbiamo tra le mani: il muro è franato il 9 Novembre del 1989, ma la crepa che lo ha sgretolato si era aperta molto prima. Era come una faglia sulla strada, spianata dai cingolati che avevano già calpestato l’asfalto di Praga nel 1968, il punto di non ritorno del socialismo reale. Poi, come una frattura che si allarga inesorabile, quella crepa si era divaricata in mezzo alle sopracciglia folte e dogmatiche di Leonid Breznev nel 1976, quando il PCUS si era chiuso nel suo sontuoso tempio, ortodosso bizantino: celebravano una vittoria (quella del socialismo sul comunismo, secondo loro!) senza percepire che fosse la vigilia di una catastrofe. Infine la crisi terminale dell’impero, e la necrosi di un mondo, erano deflagrate nel mezzo della nube radioattiva e assassina sprigionata il 26 aprile del 1986, da un reattore nella “Centrale nucleare Vladimir Ilic Lenin”:perché questa era questa era la formula pomposa che ha partorito l’acrostico più venefico, nella storia infinita dei disastri ambientali causati dall’uomo. “Centrale nucleare Vladimir Ilic Lenin”, “Cernobyl” per battezzare una centrale nucleare è una apocalisse di sistema: il nome del padre battesimale della Rivoluzione, diventa l’epigrafe funeraria del socialismo reale. Non a caso Michail Gorbaciov disse, ed è stata una delle sue intuizioni più lucide: “L’Unione sovietica è finita nello stesso giorno della catastrofe di Chernobyl”. Vero anche questo.
La suggestione di questa frase sentenziale è potentissima, un guasto nel rettore diventó, nella percezione dell’ultimo segretario del Pcus, lo schianto irreversibile nella turbina della storia del socialismo reale. Tuttavia i referti mortuari si stilano quando i corpi smettono di respirare e i cuori smettono di battere: per questo il certificato funebre del comunismo reale è stato inequivocabilmente redatto a Berlino, nel novembre del 1989, e stilato da un ufficiale giudiziario: Riccardo Ehrmann.
Di conseguenza i mattoni del muro franati quel giorno hanno continuato a rotolare, per tutto il tempo che ci separa da quella data, lungo la traiettoria del mondo e sulla testa della sinistra mondiale, e ovviamente anche di quella italiana. Le macerie del muro hanno rappresentato una slavina, che è iniziata in un secolo, ed è stata poi così potente, da finire per trascinare i suoi effetti e i sui detriti anche nell’altro.
Io Riccardo ho avuto la fortuna di intervistarlo. Nel novembre del 2009, inviato da Antonio Padellaro, per il Fatto quotidiano, ero andato fino a Madrid, a bussare alla porta della casa dove abitava l’uomo che aveva avviato questa possente onda tellurica. Volevano conoscere l’Italiano che aveva terremotato il Novecento, il granello nell’ingranaggio che aveva inchiodato la sala macchine di un edificio epocale, e fatto tremare le fondamenta di un intero secolo.
Vorrei che che il racconto partisse da quel giorno, mentre cerco di trasmettervi il senso di magia – quasi soprannaturale – che lui comunicó a me durante questa lunghissima intervista. Per questo motivo parto dal centro dell’Europa, dalla capitale più “mimetica” d’Europa, il luogo dove tutto cambia prima, dalla musica rock all’architettura, dalle costituzioni ai costumi. A
Berlino est, il 9 novembre 1989, la cosa divertente, con il senno del poi, è che Riccardo stava per arrivare tardi all’appuntamento con la storia.
Se non altro perché non poteva nemmeno ipotizzare che il destino lo attendesse così impazientemente. Non lo immaginava, il pomeriggio del 9 novembre, mentre cercava affannato un parcheggio per la sua piccola Fiat (era preoccupato per il fatto che la conferenza stampa a cui stava andando fosse già iniziata), che solo pochi minuti dopo, proprio lui, avrebbe fatto la domanda che aveva determinato, quel giorno, la caduta del muro di Berlino. Anche per questo, ancora oggi molti – soprattutto in Germania – faticano ad accettare il fatto che “il Secolo breve” si sia chiuso per un incrocio di fattori casuali e ineluttabili: il vento della rabbia che spirava ormai incessante da giorni nelle piazze e nei Palazzi della capitale tedesca, gli strappi di Michail Gorbaciov, e gli effetti tellurici della sua perestrojka e sui sistemi di potere ormai decrepiti e putrescenti del Patto di Varsavia. È la domanda di Ehrmann. Ma adesso fate attenzione ai dettagli che ritroveremo lungo questo tragitto, come se fossero gli indizi di un delitto: c’è una Trabant che lascia libero uno spazio nel parcheggio del ministero degli Esteri, mentre l’uomo che la guida saluta con simpatia un giornalista italiano a a cui sta cedendo il posto. Poi c’è un foglietto di carta scritto male a matita nelle mani di un politico che dovrà decidere. E quindi un equivoco. Quindi la telefonata di un uomo che si fa chiamare “sottomarino” nell’ufficio di corrispondenza della prima agenzia di informazione italiana a Berlino. E persino – nientemeno- un banale problema di opzioni logistiche che per puro caso riporta Riccardo a Berlino. Ma anche – e soprattutto – quel che deve accadere accade, per via della risposta improvvisata di un leader della Germania che sta per dissolversi alla domanda di un giornalista italiano. Proprio alla Sua domanda: quella dell’uomo che non trovava posto nel parcheggio del ministero.
Quel giorno in cui morì la Adde Riccardo Ehrmann aveva sessant’anni. Ieri, quando ci ha lasciato ne aveva novantadue, ma portati benissimo: la sua memoria era, fino alla fine, incredibilmente oliata e inossidabile. Lo era senza dubbio il giorno in cui l’avevo intervistato io: Riccardo aveva allora ottant’anni. Si era trasferito in Spagna, il paese di sua moglie Margarita, dopo aver girato mezzo mondo per il suo lavoro di giornalista e di corrispondente. Il suo destino – come scopriremo presto – si era incrociato almeno tre volte con quello della storia tedesca, sempre nella congiuntura del dramma. Ed era stato così anche dopo aver rischiato di finire nei camini di Auschwitz da bambino, e dopo che, seduto sui gradini sotto il tavolo di una sala convegni, ridotto ad una voce fuori campo, ma temibile e caustico come una spina nel fianco, in quell’indimenticabile 1989, aveva incalzato, il portavoce del governo Gunther Schabowski fino a fargli dire ciò che non era stato preventivato né previsto. È a questo punto che un foglietto di carta con un appunto ambiguo, per giunta maneggiato improvvidamente, aveva addizionato il suo valore aggiunto, alla fatalità che si stava per compiere. Per anni – malgrado esista una registrazione televisiva che documenta quel che accadde in quella conferenza stampa – ben cinque diversi giornalisti tedeschi, cavillando sulle inquadrature, hanno rivendicato per se stessi il merito della parte decisiva di quel botta e risposta, cercando di appropriarsi di quella voce lontana dal microfono, che avvia le danze nel grande ballo della Storia. Vanitas vanitatis. Eppure, incurante di questa ridicola contesa, anche mentre si celebrava il festival della vanagloria altrui, Riccardo era rimasto in silenzio ed aveva mantenuto segreto, per due decenni, il retroscena che quella mattina lo aveva portato sulla pista giusta. Non lo aveva rivelato, il vero motivo, perché si sentiva frenato da un vincolo deontologico, e da un obbligo privato, dettato dal suo senso dell’onore. Non voleva rivelare l’identità della fonte che lo aveva provvidenzialmente imbeccato, proprio quella mattina. Si trattava di un dirigente della Sed che lo aveva messo sulle tracce della grande Storia. Un uomo che aveva rischiato tutto per lui, e che – dati i suoi valori di lealtà alla vecchia DDR – avrebbe pagato il prezzo di quella eventuale rivelazione: Riccardo aveva promesso, e aveva protetto la sua identità fino all’ultimo perché uomo scampato all’Olocausto può avete un drammatico attaccamento alla parola data, e per lui era così. Ecco perché dolo dopo la morte di quel dirigente comunista, Riccardo aveva finalmente deciso che quel vincolo era disciolto, e che lui poteva dire la sua: questo accadde nel 2008, ovvero solo quando Gunther Potsche era già diventato polvere.
Ecco perché quando nel 2009, dieci anni fa, andai a bussare alla sua porta, in Spagna, Ehrmann era finalmente libero di rivelarmi ogni cosa. Nel cerchio ossessivo in cui chi scrive e racconta si ritrova stretto per sempre, quel racconto divenne il punto di scaturigine di un libro per me importante, “Qualcuno era comunista”. Questa testimonianza, infatti, era importantissima per capire meglio il rapporto tra il caso e la necessità, tra il ruolo degli individui e la loro capacità di interagire con la storia.
La prima cosa incredibile del racconto di Riccardo è che lui tecnicamente non avrebbe dovuto essere lì. Altri avrebbero potuto aspirare al suo posto. E quel giorno avrebbe persino potuto trovarsi già in ferie, seguendo un piano che era stato già concordato, se durante i lunghi giorni di ottobre un persistente senso di premonizione e di inquietudine (che sono sempre la dote primaria di ogni giornalista), non lo avesse tenuto inchiodato, per la disperazione di sua moglie, e la gioia del collega (che avrebbe dovuto provvisoriamente dargli il cambio) nella Capitale della DDR. E poi perché davvero quella mattina il giornalista dell’Ansa stava arrivando tardi all’appuntamento più importante della sua vita, e per giunta me lo aveva raccontato ridendo: “Avevo girato molto a lungo nel parcheggio del ministero: non trovavo posto. Avevo guardato l’orologio. Mi ero detto: ‘Non faccio in tempo, torno indietro’”. Ma già in quegli attimi il destino aveva iniziato a giocare a scacchi con lui. Proprio all’ultimo momento, quando era lì lì per desistere, una macchina nel parcheggio del ministero era uscita dalle fila, liberandogli una piazzola. Un uomo alla guida di una vecchia Trabant – fumigante e tossica come tutte le Trabant di quel paese oggi scomparso – si era stupito ed esaltato nel cedere il passo ad un gioiello tecnologico del consumismo occidentale: nientemeno che una Fiat Punto. Senza questo atto di cortesia, e il conseguente passaggio di piazzola, Ehrmann non sarebbe mai arrivato: “Per questo, come si può vedere anche nelle foto della conferenza stampa, non avevo trovato una sedia libera, e mi ero seduto alla base del podio degli oratori, sui gradini”.
Un dettaglio, come vedremo tra poco, assolutamente cruciale. Riccardo era lì perché, come sappiamo oggi, aveva avuto una soffiata decisiva, proprio quella mattina. E la circostanza, ancora dieci anni fa, suscitava in lui l’eco della sorpresa, una scarica di adrenalina e buon umore: “Oh caspita! Ero nel mio ufficio di corrispondenza, quando il telefono aveva squillato. Dall’altra parte dell’apparecchio una voce mi aveva sussurrato: ‘Sono l’uomo dell’U-boot!’. Capisci? Eh, eh, eh..”.
In quel momento Riccardo, riconoscendo il codice criptato del suo informatore gli aveva risposto. “So perfettamente chi sei. Puoi parlare’”. Dall’altra parte del telefono c’era herr Potsche: “Era un alto dirigente del partito con cui ero entrato in confidenza. Per vent’anni non ho rivelato a nessuno nemmeno il suo nome. Ma ora Gunther è morto, il mio patto di lealtà con lui si è rescisso”.
Potsche era il direttore dell’Adn l’agenzia di informazione della Germania dell’Est: “Ma – aggiungeva Riccardo, perché questo rappresentava un dettaglio decisivo per spiegare come mai gli facesse quella confidenza – era anche uno degli esponenti dell’area dei ‘rinnovatori’ all’interno del partito Comunista tedesco: ovvero era un dirigente che stava nel gruppo di coloro che, ispirandosi alla Perestrojka di Gorbaciov, sperava di salvare la Repubblica Democratica Tedesca con delle riforme”.
Era bella anche la storia di quel nomignolo con cui Potsche si era auto-ribattezzato ai suoi occhi: “In primo luogo perché il telefono – raccontava Riccardo – ovviamente era sorvegliato, e lo sapevamo entrambi. E poi perché la sede dell’Adn era collocata nei sotterranei del palazzo dell’informazione: senza nessuna finestra, un labirinto di stanze cieche, e dunque per questo il riferimento al sottomarino, lo U-boot”.
È curioso pensare che in tutto il mondo grandi giornali sono ospitati nei grattacieli dell’informazione, producono che notizie vogliono volare e che sfidano il cielo, e per questo si impennano sui palazzi dove vengono prodotte come die nuotatori sui trampolini. Ma che invece in un paese al contrario, come era la DDR di allora, la più importante agenzia di informazione non poteva che essere collocata in un seminterrato, metafora perfetta dell’informazione tombata. Quella telefonata, e il dialogo successivo sono la storia del rapporto paradossale tra “un giornalista al contrario”, che non puó dare le notizie (ma che rischiando trova il coraggio di rompere la consegna del silenzio grazie ad un collega) ed uno diritto, che vive per farlo. Questo scambio asimmetrico è un curioso chiasmo, che innesca la scintilla iniziale del nostro racconto: “Potsche mi rivelò che c’era stato un grande e combattuto dibattito nel gruppo dirigente del partito: che il giorno prima si erano decise graduali aperture nella legge di viaggio che era stata costruita per impedire l’espatrio ai cittadini della DDR”.
Nel paese al contrario – infatti – anche le definizioni più banali racontavano questo ribaltamento di senso. Ed è qui che erano entrati in campo “i rinnovatori”, il gruppo che aveva appena infranto il potere assoluto di Eric Honecker. Erano sinceramente convinti di poter salvare il loro regime forzando il blocco imposto dal muro, introducendo graduali e progressivi ingredienti di liberalità in un paese fondato sulla repressione e sul controllo. Speravano di riuscirci facendo girare di qualche grado la ruota del potere.
Riccardo li frequentava questi uomini, li conosceva bene, era entrato in relazione con molti di loro: respirava il loro sentimento collettivo. Un grande scoop non esiste se non è figlio di un lavoro, di un contesto, di una capacità di lettura, di una immersione profonda in un mondo: “Avevo un rapporto di amicizia con Klaus Gysi, ex ambasciatore a Roma, padre di Gregor, attuale leader della Linke. Poi c’era Egon Krenz: l’uomo che aveva preso il posto di Honecker, che era il più ambizioso di loro. Schabowski, l’uomo che mi ritrovai di fronte quel giorno nella conferenza stampa al ministero, era senza dubbio il più intelligente di tutti loro. Faceva il giornalista, aveva preso in mano ‘Neus Deutchland’ l’illeggibile giornale del partito facendone un riferimento per chiunque volesse capire quel paese: con questi dirigenti era possibile scambiare delle idee, indagare, capire”.
E infatti solo pochi giorni prima i “Rinnovatori” avevano regalato a Riccardo un altro scoop di portata mondiale. Anche in quel caso era stata una soffiata di poche parole dello “U-boot”, un siluro del sottomarino, ad allertarlo: “‘Guarda che Honecker non ha accompagnato Gorbaciov in aeroporto…’. Io – ricordava Riccardo – l’avevo sparata e vestita con un titolo esplosivo. La notizia aveva fatto il giro del pianeta. Era stato un potente segnale premonitore. Ma nemmeno noi avevamo capito quanto fosse stato importante”.
Il muro stava già scricchiolando ma nessuno lo aveva ancora capito, né a Mosca, né a Berlino, ma nemmeno a Washington. E non bisogna stupirsi: non lo avevano capito nemmeno loro – i rinnovatori che erano appena arrivati in cima a quel confine fatto di mattoni, scalandolo idealmente, e che in quel momento stavano duellavano con gli “ortodossi”, che ci si erano abbarbicati sopra e non volevano scendere. Nemmeno loro aveva chiaro che erano stati intaccati i pilastri portanti del Sistema, e che le fondamenta di un intero Stato stavano vacillando.
La Germania era in quel tempo ancora un paese della cortina di ferro: pullulava di spie e di delatori a libro paga del regime, in un clima alla John Le Carrè. Riccardo raccontando sospirava: “A Berlino c’ero stato, la prima volta, nel 1976. Poi ero andato in India nel 1982 nel 1982 ero tornato di nuovo in Germania, quasi per caso: pare che mentre si aggiudicava quella ambita corrispondenza nessuno dei colleghi più titolari di me che avevano la possibilità di essere trasferiti, conoscesse il tedesco!” E di nuovo Riccardo rideva: “Vuoi un aneddoto sapido?”. Certo, gli avevo risposto: “Un giorno uno degli addetti diplomatici dell’ambasciata americana mi aveva detto: ‘Vuoi che ti faccia una bonifica nel tuo appartamento?’. Parlava di microspie, non di blatte, ovviamente. Avevo risposto di sì, ma non immaginavo di essere così controllato”. L’americano amico di Riccardo manda un tecnico di fiducia dell’ambasciata (in realtà un agente della Cia) con un potentissimo rilevatore di tensione: quel giorno trovarono un microfono in ogni stanza della casa e ben due, chissà perché, nascosti nella loro camera dal letto. Qui Riccardo aveva dato un altro saggio della sua sagacia, fermando il tecnico, che li voleva rimuovere: “Stai Scherzando? Non li tocchiamo”. Io gli avevo chiesto perché ma già intuivo la risposta: “Farlo avrebbe significato diventare sospetti, li avrebbero rimessi subito. Molto meglio sapere dov’erano, per potersi regolare quando si parlava. Però…”. Qui il carattere toscano e irriverente aveva prevalso su tutto, suggerendo a Riccardo una follia: “Un giorno non resistemmo alla consegna di finta inconsapevolezza che ci eravamo dati: io e mia moglie eravamo allora in uno stato di vigore adeguato e, prima di concederci ad un momento di grande e liberatoria intimità, avevo gridato: ‘Adesso aprite il stereofonia che inizia uno spettacolo interessante!’”.
Una zingarata. Folle e geniale. Stavo pensando a come si potesse immaginare di poter fare una cosa simile nella Repubblica Democratica Tedesca del 1989, fra gli agenti della Stasi, il clima inquisitorio da “Le vite degli altri”, le mille orecchie che facevano capolino ovunque e le ossessioni orwelliane di un regime occhiuto, quando Riccardo mi aveva raccontato gli effetti sorprendenti di quella battuta. Stupefacenti anche per lui, addirittura positivi per coloro che erano in ascolto: “Pochi giorni dopo un dirigente del ministero dell’informazione mi avvicinó sussurrandomi con un sorriso: ‘Siamo lieti di sapere che lei ha una vita familiare così vivace, herr Erhmann…’”. Risata complice.
Il gesto dadaista aveva prodotto un effetto insperato, e del tutto opposto a quello immaginato. Aveva rassicurato i controllori, compiacendoli nella loro ossessione di vigilanza totale, li aveva comfermati nella loro sensazione di onnipotenza. Se arrivi a rivelarci i tuoi orgasmi, era il senso, significa che non puoi avere più segreti per noi. Esplicitare questo sottointeso, era come suggellare un contratto.
Ma torniamo al 9 novembre, all’antro razionalista e plumbeo del ministero dell’informazione, ai freddo marmi della Ddr. La conferenza stampa è trasmessa in diretta sulla tv tedesca, e Riccardo – siccome è stato imbeccato dallo U-boot – inizia a martellare il povero Schabowski: “Lo attaccai più volte sulla legge che era in vigore fino a quel giorno: permetteva solo teoricamente l’espatrio – così recitava l’articolato – per chi possedeva un visto e un passaporto’. Peccato che nessuno in quel paese possedesse entrambi i requisiti”. Avevo obiettato all’ex corrispondente dell’Ansa che queste, a prima vista, non sembravano condizioni particolarmente severe. Lui era l scoppiato a ridere: “Peccato che, se per caso chiedevi il passaporto e non avevi il visto, finivi automaticamente sulla lista nera della Stasi. Mentre se avevi il visto e chiedevi il passaporto finivi direttamente in carcere, come sospetto traditore della patria”. Ehrmann aveva rimproverato proprio questo a Schabowski, con il piglio della “seconda domanda”, e poi si era spinto fino a chiedergli se ci sarebbero state delle novità nella definizione delle regole-cardine della legge: “Non voglio dire – sospirava con il senno del poi – che ci volesse fegato ma…”. Ce ne voleva, e non poco. Tant’ è che il dirigente del partito tedesco aveva risposto in affanno.
“Disse proprio allora, e per via di questa pressione, la fatidica frase. Che i viaggi sarebbero stati possibili ‘Ab sofort’. Ovvero, tradotto dal tedesco: ‘Con effetto immediato”. Bomba atomica.
Sì è scritto, in questi anni, che Gunther Schaboski prima di quella conferenza stampa aveva ricevuto un fogliettino di Egon Krentz – il suo leader -con una formula suggerita in cui era stata soppesata, con cautela, ogni parola. E che invece, preso dalla fretta, avesse letto male quell’appunto. Schabowski, forse per giustificarsi, in una occasione raccontó invece che l’appunto con la frase concordata era scritto a matita, con una mina molto pastosa, perché non aveva trovato una penna mentre al telefono prendeva la comunicazione. E aggiunse che ripassando nervosamente tra le mani quel foglietto, durante la conferenza stampa, aveva sbaffato le lettere fino a renderle illeggibili. Possibile? “Ehhhhh – mi rispose Riccardo prendendo un respiro – me lo sono chiesto anche io, tante volte. L’unica cosa certa – aggiunge il giornalista – è che non era una balla costruita per mascherare una raffinata strategia comunicativa. Nessuno di loro era preparato. Lui stesso era tornato appena dalle vacanze. Harald Jäger l’ufficiale che presiedeva uno dei varchi più importanti di Bornholmer Straße – aggiungeva a Riccardo – ha raccontato di aver appreso tutto soltanto dalla tv. E che dopo aver sentito il nostro botta e risposta aveva ordinato: ‘Su la sbarra’”. In un intervista alla tv tedesca – in occasione del ventennale del Muro – Jager aveva detto con glaciale tranquillità, e senza certo apparire in preda ai rimorsi, anche che l’alternativa era sparare. Era evidente che in quel clima avrebbe potuto verificarsi un carneficina. Forse il Muro di Berlino sarebbe caduto lo stesso, ma dopo essere sprofondato in un lago di sangue denso e cupo. “Invece – osservava Riccardo – dopo sole tre ore da quella domanda, il Muro di Berlino non esisteva più”.
Nella stessa notte le bandiere bucate e ritagliate per rimuovere il simbolo con il compasso e il martello coronato di spighe della DDR, venivano fatte sventolare sulla sommità del muro dai ragazzi a cavalcioni della Storia: il tempo di Yalta e la guerra fredda erano finiti. Riccardo ammette: “Non riuscivano a capacitarci di quello che stava accadendo. Raccontavano il precipitare degli eventi in presa diretta, senza avvertirne peró la portata”. E se era difficile immaginare che sarebbe caduta la DDR, era impossibile solo ipotizzare che a partire da quella domanda (e da quell’esodo) di lì a poco sarebbe potuta cadere l’Unione Sovietica. Avevo chiesto a Riccardo se dopo tanti anni aveva stimato con esattezza il peso che quella conferenza stampa aveva avuto nell’innescare la dissoluzione della Ddr e di tutto il mondo del socialismo reale. Lui mi aveva sorriso:
“Contó molto, perché non sono immodesto. Ma contó anche molto poco, perché non sono megalomane. I tempi erano maturi. E i rinnovatori aveva in ogni caso deciso di arrivare allo strappo con gli ortodossi. Capisci? Non sai quando e come. Ma sai che accadrà”.
Avevo chiesto a Riccardo cosa si provava ad aver fatto lo scoop del secolo. A questo punto lui era rimasto in silenzio, come se stesse ripercorrendo dentro di se il lungo e concitato film di quelle ore: “Quel giorno ero corso a telefonare per dettare l’articolo. Avevo scritto nel pezzo una frase testuale che suonava così: ‘Oggi questo annuncio equivale alla caduta del muro’. Seppi solo dopo che, comprensibilmente, nella redazione esteri dell’Ansa di Roma il commento era stato laconico: ‘Ehrmann è impazzito’”.
Avevo domandato a Riccardo se alla luce di quella vicenda si fosse convinto che nella nostra professione la fortuna sia grande arbitro della nostra quotidiana battaglia, di giornalisti con i fatti. Lui mi aveva risposto così: “La fortuna esiste, certo. Ma quella domanda era anche frutto di una lavoro di preparazione meticoloso e prolungato nel tempo, e di una grande conoscenza della DDR che mi aveva guidato, ed aiutato a capire ”. Pausa, altro sorriso: “Nulla si improvvisa, mai, ricordalo”.
C’era stato anche come in tutti i grandi racconti, un sottofinale: quando Ehrmann molti anni dopo, aveva reincontrato Gunther Schabowski, l’uomo che aveva avuto tra le mani il destino del socialismo reale, e che dopo la caduta del muro si era dovuto reinventare una nuova vita. Nella nuova Germania di Helmut Khol, in cui la Memoria della DDR era stata stravolta e rovesciata di nuovo, fino a diventare nostalgia (in questo campo svetta la bellissima sintesi cinematografica di “Goodbye Lenin”), Schabowski per campare faceva il cronista di una testata locale. I due volevano entrambi parlarsi, come se avessero la percezione di essere stati saldati per sempre, uno all’altro, dall’anello d’acciaio del 9 novembre. Quadro vivido e folgorante di un dialogo memorabile: Riccardo e Gunther parlano davanti ad una pinta di birra in un locale di Berlino est. L’ex dirigente della Sed non è arrabbiato, anzi, gli dice con un sorriso sornione: ‘Lo sa? Lei mi ha regalato una grande ispirazione’”. Riccardo era rimasto sbigottito. E a distanza di tanti anni osservava: “Ripensandoci mi sono reso conto che in qualche modo era vero”.
Secondo sottofinale. Se Riccardo Ehrmann fosse arrivato in Germania da bambino, nel primo viaggio all’estero della sua vita, non avrebbe mai potuto porre quella domanda. Non era il turismo, infatti, che lo aveva spinto su un treno diretto verso il Terzo Reich. Riccardo era fiorentino, come sappiamo. Ma, come è altrettanto evidente, il suo è un cognome di origine ebrea-polacca dopo le leggi razziali erano diventate un marchio infamante per lui e per i suoi. Nel 1942 a soli tredici anni anni Riccardo viene deportato in un campo di concentramento a Ferramonti, in Calabria. È la prima tappa della deportazione finale, fino ad Auschwitz. Ma In Calabria, lui e i suoi genitori vengono liberati dagli alleati, che dopo lo sbarco in Sicilia risalgono la penisola per attaccare i confini trincerati della linea Gotica. Riccardo è l’ultimo di una storia: “Sono l’unico che è tornato da quella prigionia. Il resto della mia famiglia non esiste più”. Gli avevo chiesto se per lui era possibile che dietro l’ostinazione con cui alcuni giornalisti tedeschi avevano cercato di mettere in dubbio il suo ruolo, ci fosse il disagio per questa sua origine, una venatura di antisemitismo più o meno latente o inconsapevole. Lui aveva preso un sospiro profondo. “Spero di no”. E poi nei suoi occhi era apparso di nuovo un lampo di luce, il demone iridescente e fumantino del fiorentino impenitente, un taglio di sorriso nella ragnatela delle sue rughe: “Ma se fosse vero, sappi che anche solo per questo mi farebbe un piacere immenso, aver fatto proprio io quella domanda”.
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