Purtroppo è così: bisogna partire dai bilanci, dai profitti, dai soldi. Non c’è poesia, né avventura. I cedimenti romantici sono roba per i nostalgici. Solo il denaro, l’esercizio brutale del potere spiegano come sia possibile che il nipote dell’Avvocato Agnelli abbia concesso una mancia ai figli di Carlo De Benedetti e si sia preso la Repubblica e tutto il resto, abbia cacciato il direttore Carlo Verdelli, minacciato di morte dai fascisti, senza nemmeno avvertire il fondatore Eugenio Scalfari. Un po’ di rispetto, almeno per l’età. Un comportamento che forse ha scosso i fragili pensieri dei teorici delle “radici comuni” – un mix di Fiat, di nostalgia delle amanti dell’Avvocato e di Platini, di Giustizia e Libertà in pillole, di giornalisti “de sinistra” ma compiacenti coi potenti perché tutti teniamo famiglia – pronti a giustificare il matrimonio tra la Stampa e Repubblica-Espresso quando comandava De Benedetti e oggi sorpresi per l’arroganza di John Elkann che non solo compra tutto, ma affonda lo sfregio sull’immagine di Repubblica portando alla direzione Maurizio Molinari, totalmente estraneo a questa storia, comunque la si giudichi una bella storia di editoria, di giornalismo, di cultura e di società.
Ma non c’è da discutere, i soldi pesano. Exor, la holding degli eredi Agnelli, dispone di circa 11 miliardi di euro di liquidità, fondi spendibili per cogliere occasioni nel mondo della finanza e dell’industria, utili magari per diversificare dall’industria dell’auto. Negli ultimi mesi Elkann ha rimpinguato le casse con la promessa di un dividendo straordinario Fca di 1,5 miliardi, a valle della fusione con Psa, e con la cessione dell’americana Partner Re alla francese Covèa per 9 miliardi di euro, con una plusvalenza di 3 miliardi. Prima aveva venduto la Magneti Marelli, un gioiello, ai giapponesi. Cosa volete che siano 102 milioni di euro spesi da Elkann per prendersi tutto il gruppo Stampa-Repubblica-Secolo XIX, la rete dei giornali locali, le radio? Un’inezia, il vassoio dei pasticcini della domenica. Elkann, che ha comprato anche le quote di minoranza di Giacaranda Caracciolo e della famiglia Perrone, forse spenderà altri 80, 90 milioni di euro per rastrellare con un’offerta pubblica tutte le azioni. Ma non è un grande sforzo se hai in cassa 11 miliardi da spendere.
Questa novità, il blitz di Elkann, giunge in un momento drammatico per l’editoria italiana, non solo per gli effetti della pandemia che colpisce il Paese. I giornali soffrono da anni. Il mercato della pubblicità pure. Le tirature dei principali quotidiani sono inguardabili tanto sono scese in basso. In questa congiuntura è impossibile fare miracoli. Il mercato della pubblicità vale in Italia circa 9 miliardi di euro l’anno (2018, fonte Upa), la quota maggiore va ancora alle tv (3,8 miliardi, pari al 43% del totale), poi c’è Internet (3,1 miliardi, pari al 34,9%). I quotidiani non arrivano a 600 milioni (6,7% del mercato), le radio raccolgono 431 milioni (4,9%), i periodici confermano la loro debolezza (4,4%). I nuovi padroni della pubblicità sono Facebook e Google, con il loro monopolio nelle piattaforme e tecnologie. Solo un intervento politico, sanzionatorio, almeno a livello europeo, come quello che spezzò il monopolio delle telecomunicazioni in America può aprire di nuovo il mercato. Se guardiamo solo ai giornali viene da piangere. L’Agcom sostiene che dal giugno 2015 al giugno 2019 le copie cartacee sono passate da 2,34 milioni a 1,58 milioni al giorno, con una contrazione del 30%. Economicamente bisognerebbe riequilibrare questa flessione con le copie digitali, ma sarebbe necessario seguire criteri condivisi da tutti gli editori. Comunque si può dire che il digitale, anche nei suoi risultati migliori, non compensa i ricavi persi dall’editoria tradizionale in Italia.
Cosa farà allora il nuovo polo di giornali radio internet di Elkann? C’è la promessa della trasformazione digitale, di valorizzazione dell’indipendenza. Sembra probabile che verrà creata una sola piattaforma editoriale, produttrice di contenuti, capace di elidere doppioni e costi, mantenendo l’apparente autonomia delle testate per difendere marchi territoriali e nazionali. Ovviamente la “razionalizzazione” comporterà dei sacrifici in termini occupazionali: perché avere tre redazioni a Genova, o un paio a Milano, Torino, Roma? Ora che una quindicina di quotidiani, tra grandi e piccoli, sono controllati dalle stesse mani la cosa più semplice da ipotizzare è che ci sia una direzione editoriale unica (Molinari, appunto), un risparmio di risorse da una parte per investirle altrove, il taglio di rami secchi e l’apertura di strade nuove. La trasformazione digitale non c’è stata nella nostra editoria, tutti i treni sono passati ma gli editori hanno preferito vivacchiare per difendere i loro margini, sempre più bassi, scaricando i costi sociali delle ristrutturazioni sui fondi pubblici e gli enti di previdenza.
Nessun ha rischiato nulla. Non basta portare pezzi del giornale di carta sul web per fare la rivoluzione digitale. Oggi l’editoria nazionale è questa: il neofita Elkann da una parte e Urbano Cairo, con il Corriere della Sera, la Gazzetta dello Sport e la7 dall’altra. Non si scappa, questa è la realtà. Restano i giornalisti. Resta il giornalismo, un mestiere bellissimo. I giornali, anche se malmessi, non sono carta straccia, meriterebbero più rispetto sia da parte dei padroni che dei lettori. Raccontano il nostro tempo, seguono le stagioni della vita, sostengono la nostra memoria, sono portatori di passioni. I giornalisti, in questo brutto momento, possono ricorrere al pensiero di un grande collega. Giorgio Bocca, tra i fondatori di Repubblica, scrisse amare considerazioni sullo stato dell’informazione in Italia, prima di lasciarci, ma con una speranza: “Sono convinto che ci sarà ancora bisogno di un giornalismo etico, d’informazione, d’inchiesta. Sarà sempre indispensabile per una società civile”.