C’è stato un periodo, purtroppo abbastanza lungo, in cui a Matteo Renzi è stato concesso e perdonato tutto. Diciamo che, a cavallo fra il 2012 e il 2016, a molti è sembrato, nell’ordine: l’alfiere del rinnovamento, uno statista, il perno del sistema politico italiano, un innovatore senza precedenti, un riformista e, nel campo dei sostenitori da destra, il vero erede di Berlusconi, quel delfino che il Silvio nazionale non ha mai voluto, di fatto, avere nel proprio schieramento. Poi son cominciati i pentimenti, i ritorni sui propri passi, gli addii.
Così, se ancora nel 2017, Matteo da Rignano sull’Arno riconquistava la segreteria del PD a furor di aficionados, ecco che nel 2018, in seguito allo schianto elettorale che ha condotto il suddetto partito al punto più basso della sua storia, il rottamatore in disarmo era costretto a passare la mano. Non prima, tuttavia, di aver fatto saltare l’accordo fra PD e 5 Stelle e consegnato il Paese alla destra, con Salvini egemone, Di Maio a fargli da spalla e uno sconosciuto avvocato di nome Giuseppe Conte incaricato di fare sintesi fra i due.
Fra attese interminabili, trattative infernali e minacce di impeachment al Capo dello Stato, il governo gialloverde divenne realtà alla vigilia della Festa della Repubblica del 2018, con un PD condannato a mangiarsi i pop corn sul divano e una sinistra che non aveva neanche i numeri per entrare in partita. Tralasciando i quattordici disastrosi mesi che hanno segnato l’esperienza gialloverde, ecco che nell’estate del 2019 il buon Salvini decide di suicidarsi politicamente, chiedendo i pieni poteri dalla battigia del Papeete e venendo, giustamente, accantonato dal Presidente della Repubblica, da un PD parzialmente derenzizzato e da un M5S in grado, grazie al provvidenziale intervento di Grillo, di fare per una volta politica a scapito delle sparate dei duropuristi.
Non può essere, però, ignorato che nulla sarebbe stato possibile se un certo Matteo Renzi, da tempo intenzionato a cambiare ditta, non avesse avuto bisogno di prendere tempo per mettere in pista Italia Viva, indossando provvisoriamente i panni dello statista e consentendo che si compisse il disegno politico che solo un anno prima aveva ostacolato con tutte le forze e il memorabile hashtag #senzadime.
Da quel momento in poi, l’indefesso conferenziere e documentarista non ne ha indovinata mezza, comportandosi sistematicamente da leader dell’opposizione pur essendo stabilmente al governo, peraltro con due ministre importanti come la Bonetti e la Bellanova.
Non a caso, quest’ambiguità, la scarsa comprensibilità, per non dire l’assenza, del suo disegno politico e la percepita strumentalità di molte sue affermazioni lo hanno relegato, nei sondaggi, a una posizione marginale, al punto che più di un retroscena accredita l’ipotesi secondo cui alcuni di coloro che lo hanno seguito nell’avventura del nuovo partitino si sarebbero da tempo pentiti.
Tutto questo fino alla trovata dell’altro giorno in Senato, quando, accanto a una citazione di Seneca e a un condivisibile discorso sulla differenza fra costituzioni conquistate dal popolo e costituzioni ottriate, ossia concesse dal sovrano, al pari dei diritti in esse contenuti, si è lasciato sfuggire un’affermazione che lo ha defintivamente messo fuorigioco.
Quando un personaggio che è stato Presidente del Consiglio e segretario di un partito del 40 per cento non trova di meglio che asserire che se i morti di Bergamo e della Val Seriana fossero ancora con noi ci chiederebbero di riaprire, è evidente che quel personaggio abbia concluso la sua carriera ai vertici persino in un Paese fortunatamente di indole perdonista come il nostro.
Al cospetto di luterani, anglicani e calvinisti, Renzi avrebbe dovuto lasciare la politica già nel 2016, quando lo aveva solennemente promesso in caso di sconfitta referendaria. Da noi è riuscito a rimanere sulla breccia fino al 30 aprile 2020, lo stesso giorno, guarda le coincidenze della storia, in cui terminò, con ben altro pathos e una drammaticità mille volte superiore, la vicenda politica di Bettino Craxi, travolto da Mani Pulite e colpito, anche abbastanza indegnamente, dalle monetine scagliate contro di lui da una massa inferocita assiepata di fronte al Raphaël.
Il paragone finisce qui. Renzi, a differenza di Craxi, non ha ricevuto alcun avviso di garanzia e non è stato sottoposto ad alcuna condanna in sede giudiziaria, non si è dovuto rifugiare in Tunisia e, soprattutto, crediamo, a differenza sua, che i morti debbano essere rispettati e lasciati in pace sempre e comunque.
Fatto sta che, anche qualora dovesse andare a compimento il disegno di una parte del mondo imprenditoriale ed editoriale italiano di far saltare Conte e sostituirlo con un esecutivo ben più a destra e guidato da una figura in sintonia con il nuovo corso confindustriale, l’impressione che comincia a farsi largo è che entrambi i Mattei sarebbero tenuti ai margini. L’uno, quello del Papeete, perché si è spinto troppo oltre e, più che mai, è considerato troppo vicino alla non esaltante classe dirigente che finora ha gestito la tragedia lombarda. L’altro perché conta, ormai, solo nei palazzi del potere: nel Paese non ha più alcuna presa.
E allora, non c’è dubbio che tanto Salvini quanto Renzi faranno politica vita natural durante, non c’è dubbio che riusciranno sempre a garantirsi una poltrona e un’intervista a driatta e a manca, non c’è dubbio che potranno condizionare ancora a lungo gli equilibri del nostro sfarinato assetto istituzionale, ma è altrettanto vero che entrambi sono sovra-rappresentati.
Renzi, in particolare, vive solo grazie alle continue interviste, alle perenni ospitate e all’importanza capitale che gli viene attribuita da editorialisti, opinionisti, retroscenisti e, ahinoi, anche da alcuni illustri frequentatori di se stessi. Non ha mordente, ha ben poco da dire, sconfina spesso nell’assurdo, esagera ed è ormai inviso pure a coloro che fino a qualche mese fa gli erano comunque rimasti vicini, pur non condividendone le scelte, ma oggi lo guardano con imbarazzo e, anche se non lo ammetteranno mai pubblicamente, cominciano a interrogarsi se non sia stato un errore attribuirgli negli anni scorsi tanta importanza e tanto potere.
Ignorarlo un po’, intervistarlo e invitarlo assai meno e attribuirgli lo spazio che merita un partito che, se si andasse a votare, non è detto che riuscirebbe a riportare propri rappresentanti in Parlamento non sarebbe, dunque, una forma di censura ma una semplice e saggia presa d’atto della realtà. Raccontare i fatti per come sono e i loro attori per come si presentano e per quello che valgono effettivamente: la regola aurea del buon giornalismo.
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