Reduce dal giro in motoscafo scarrozzato dagli emiri, seduto su una sedia (e più gonfio del solito), Matteo Renzi lancia il suo ultimo assalto al reddito di cittadinanza con una memorabile filippica contenuta nella sua newsletter: “In un mondo che va verso i big data, ai ragazzi va detto: studiate, mettetevi in gioco. Poi se fallite vi diamo una mano”. Bontà sua. Il memorabile fascino del paternalismo binario, che nasconde l’istinto innato del padroncino.
Ancora una volta lo splendido predicatore di Rignano razzola in maniera ispirata: “Se il messaggio ai giovani è: non vi preoccupate, tanto lo stato vi da un sussidio, state a casa, poi eventualmente fate un lavoretto in nero, tanto non se ne accorge nessuno, tanto rimpinguate lo stipendio, questo messaggio è diseducativo”. E poi – mentre rilancia l’idea di un referendum abrogativo del reddito i cittadinanza – il gran finale: “Io voglio mandare a casa il reddito di cittadinanza perché questo messaggio è diseducativo: voglio riaffermare l’idea che la gente debba rischiare, soffrire, correre, giocarcela, se non ce la fa gli diamo una mano. Ma – conclude Renzi – bisogna sudare, ragazzi”.
Fantastico. Detto dall’uomo su cui la magistratura si interroga, proprio in queste ore, per i compensi stratosferici pagatigli dal suo agente Lucio Presta, è la fine del mondo. Presta ha fatto un contratto a Renzi per tre programmi, solo uno di questi è stato realizzato, e produrlo ha fatto lievitare (per la società di Presta) i costi fino ad un milione di euro. Quindi, ricapitolando: Renzi ha incassato 700mila euro per tre progetti, ne ha realizzato uno solo, e ha fatto guadagnare alla società di Presta solo mille euro per la vendita del suo documentario (una fattura che, peraltro, risulta non pagata alla società).
Un milione di euro spesi per guadagnarne mille: deve essere questo che Renzi intende per “rompersi la schiena”? Difficile da capire: perché prima di essere eletto alla provincia di Firenze, Renzi ha lavorato nell’azienda di suo padre e di sua madre. Non è andato in giro a recapitare curricula, non si è mai visto sbattere una porta in faccia, non si è mai sentito chiedere una raccomandazione.
Da perfetto figlio di papà faceva il padroncino, e – come ha ricordato un suo ex dipendente, oggi diventato deputato di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, provava gusto a esercitare il suo ruolo di capo nell’azienda di distribuzione dei quotidiani di famiglia. Aneddoto memorabile: quando piombava sui giovani strilloni assunti da suo padre e con fare spiccio (lui, da ventenne) li rimproverava: “Se tu non fai vedere la prima pagina non vendi una copia!”.
Renzi era retribuito come co.co.co, poi divenne dirigente proprio a ridosso dell’elezione. Una bella opportunità. Non ha mai conosciuto altri datori di lavoro che la sua famiglia e lo Stato. Dopo quell’assunzione ha maturato – in ragione della legge sui distacchi – contributi figurativi rapportati a quello stipendio provvidenziale. Un’altra bella fortuna, siamo contenti per lui.
Ma resta un dubbio. In questa sua appassionata preparazione da “nuovo ricco” che grazie ai lavori di consulenza e alle conferenze dichiara di guadagnare oltre un milione di euro l’anno, Renzi mette un’acrimonia tutta particolare nel combattere una forma di sostegno per i più poveri. Parliamo di soldi che, secondo i dati dell’INPS, ammontano mediamente a 490 euro.
Attenzione: Renzi non critica il collocamento, la parte della legge che non ha funzionato per i ritardi Anpal (l’agenzia che sotto il suo governo era stata depotenziata e in parte smembrata) ma attacca in linea di principio la stessa idea del reddito. Vuole buttare a mare, cioè, insieme al bambino, anche l’acqua sporca.
Ma questo è un altro discorso, oggi il dubbio è uno solo: quando mai Renzi, nella sua vita, abbia sofferto e si sia “rotto la schiena”. Forse quando a diciannove anni, nel 1994, partecipò da concorrente a “La ruota della fortuna”? Restò in onda per cinque puntate, vincendo 48,3 milioni di lire dell’epoca (l’equivalente di 25mila euro). Forse, rivedendo con attenzione il suo curriculum, è stato proprio quello il periodo più duro della sua vita.
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