Il caso Renzi-Mancini presenta aspetti allarmanti. Il primo tocca la professoressa che ha fotografato e filmato in un’area di servizio sull’autostrada il leader di Italia Viva con un allora dirigente dei servizi segreti. È indagata per “diffusione di riprese e registrazioni fraudolente”.
Un reato, il 617 septies, che punisce chiunque per danneggiare la reputazione o immagine di un soggetto diffonda «riprese audio o video compiute fraudolentemente di incontri privati o registrazioni (…), pur esse fraudolente (…), di conversazioni svolte in sua presenza o con la sua partecipazione».
La pena può arrivare fino a quattro anni. Con un’eccezione: «La punibilità è esclusa se la diffusione delle riprese o delle registrazioni deriva in via diretta ed immediata dalla loro utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca».
Chi diffonde immagini o audio per diritto di cronaca, insomma, non compie un reato. Tanto meno andrebbe censurata la prof che ha di fatto messo in pratica il citizen-journalism, forma di cronaca spicciola e distante anni luce dalle grandi strutture editoriali. Non è quello che dovrebbe auspicarsi una società cristallina?
Dopodiché arriva la questione di com’è stata identificata la professoressa: cioè sequestrando i tabulati telefonici che hanno sbriciolato il segreto professionale opposto da Ranucci e Mottola di Report. È una modalità auspicabile?
Da parte sua, Renzi ha aggiunto che «qualcuno ha violato il segreto di Stato» e che «violare il segreto di Stato porta a 24 anni di carcere». Parole confrontabili con quelle del compianto Oreste Flamminii Minuto, ex presidente della Camera penale di Roma. Ripeteva che «il giornalista non deve assecondare i poteri ma violarne i segreti nell’interesse della collettività». Ricordiamocelo.