A oltre otto mesi dalla vittoria alle elezioni politiche del centrodestra con il trionfo di Fratelli d’Italia, si inizia a vedere davvero di che pasta è fatta la Giorgia-Meloni-premier.
Dismesse le museruole che aveva temporaneamente imposto a se stessa e ai suoi nei primi mesi dopo il risultato del 25 settembre, e venuta meno la pax draghiana a cui si era “ispirata” per opportunità, emergono infatti inquietanti segnali che dovrebbero preoccupare anziché far divertire, come accade nei siparietti che la nostra offre ai suoi lacchè e a buona parte della stampa nostrana, oggi improvvisamente fulminata sulla via di Giorgia.
Oltre ai danni economici e politici che questo governo sta producendo, all’orizzonte si stagliano sempre più chiari anche quelli culturali. Con effetti devastanti.
Perché se un presidente del Consiglio dichiara pubblicamente «io non leggo i giornali, vi faccio questa confessione» (persino vantandosene) arreca un danno grave all’immagine e alla funzione dell’informazione, essenziale per ogni democrazia.
Questa sua dichiarazione è palesemente falsa, visto che se invece i giornali glieli legge qualcuno smentisce in ogni caso se stessa. Ma dimostra anche come le «polemiche che non bisogna stare a sentire» non siano in fin dei conti così irrilevanti.
Mancare di rispetto alla stampa è, da parte di Giorgia Meloni, un segnale orrendo oltre che un’avvisaglia allarmante per tutti noi, senza nemmeno voler considerare il pessimo esempio che dall’alto del suo ruolo la premier offre a chi malauguratamente si imbatte in quel suo discorso.
C’è di più: Meloni ha anche avvisato che «io non intendo sostituire un intollerante sistema di potere con un altro intollerante sistema di potere. Io voglio liberare la cultura italiana da un intollerante sistema di potere». Tradotto: vuole il “suo” sistema di potere. Punto. E difatti dopo il repulisti in Rai, la premier ha già spartito poltrone e poltroncine tra i suoi fedeli o presunti tali (perché la fiducia in Italia dura fintanto che si detiene il potere).
La peggiore stoccata, però, è quella sul merito: «A me interessa – ha detto Giorgia Meloni – che questo Paese capisca il principio del merito…pari dignità, pari opportunità…ma poi dove arrivi, quello dipende da quanto sai dimostrare tu».
Peccato che questa narrazione sia il motivo per cui migliaia di studenti, al liceo e nelle università, si sentano buoni a nulla e oppressi dal mito del successo (nei casi migliori) o siano arrivati a togliersi la vita (nei casi peggiori), come abbiamo raccontato tante volte sul nostro giornale denunciando un disagio profondo tra i più giovani.
Eccolo, dunque, il vero Meloni-pensiero a un anno dal voto del 25 settembre: disprezzo per la stampa e l’informazione; nuova egemonia culturale incastonata in un sistema di potere fatto su misura; apologia tossica del merito in un Paese che sin dalla scuola annienta la mobilità sociale per definizione.
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