Maduro, Erdogan, al-Sisi. Politici molto diversi tra loro, come è diverso il trattamento che a loro viene riservato. Maduro viene descritto come un feroce dittatore. Su Erdogan i giudizi sono ambigui, tuttavia gode di una sostanziale immunità da parte della comunità internazionale in quanto la Turchia è membro NATO e ha rapporti conflittuali con la Russia di Putin e la Siria di Assad.
Abdel Fattah al-Sisi è un intoccabile. A lui tutto è perdonato. Matteo Renzi, che a parole fa il paladino dei diritti umani, lo definì addirittura “un grande statista” quando era presidente del Consiglio.
Quattro giorni fa, nelle stesse ore in cui i pm di Roma stavano finendo di scrivere l’atto di chiusura delle indagini sull’assassinio di Giulio Regeni, all’Eliseo di Parigi, Macron conferiva ad al-Sisi la Grande Croce della Legion d’Onore della République, la più alta onorificenza della Francia, una decorazione che, tra l’altro, viene spesso assegnata ai difensori dei diritti umani o della libertà di stampa.
Sarà stata una svista, una volgare caduta di stile, un’ipocrita prassi istituzionale, oppure una scelta precisa e ponderata. Oppure tutte queste cose insieme. La Francia, nonostante voglia far credere il contrario, si è macchiata ripetutamente, negli ultimi 80 anni, di violazioni dei diritti umani.
Se lo ricordano bene in Vietnam, soprattutto ad Haiphong, teatro di una strage che costò la vita ad oltre 6.000 cittadini vietnamiti, molti dei quali civili e che segnò l’inizio della guerra d’Indocina che si concluse con la cacciata dei francesi. Se lo ricordano bene gli algerini, massacrati a migliaia perché, giustamente, lottavano per la loro indipendenza.
Dovrebbero ricordarselo anche in Libia, dove un intervento militare voluto da Sarkozy, avallato dal Premio Nobel per la Pace Obama e dalla sedicente paladina dei diritti civili Hillary Clinton, nonché reso possibile dalla connivenza di Napolitano e dalla pavidità di Berlusconi, ha trascinato il Paese nel caos più assoluto. Un caos voluto, perché in acqua torbide si pesca meglio.
In acque torbide intende pescare Macron, che sa perfettamente che controllare la Libia significa poter “gestire” una delle rotte dei migranti, significa mettere le mani su giacimenti di petrolio e gas e significa indebolire l’Italia, obiettivo che la Francia ha da quando, all’epoca di Enrico Mattei, l’Italia sostenne le sacrosante rivendicazioni algerine.
Per raggiungere i suoi scopi Macron cerca alleati, uno di questi è al-Sisi. Così si spiegano le relazioni sempre più strette tra Francia ed Egitto nonostante i diritti umani violati all’ombra delle piramidi, nonostante gli arresti illegali degli oppositori al regime, nonostante Giulio Regeni, un ragazzo italiano ed un cittadino europeo.
Che il controllo delle rotte dei migranti sia diventato (e lo sarà sempre di più) un’arma strategica è fuori di dubbio. Dominare le rotte dei disperati ha oggi la valenza che un tempo aveva il controllo delle rotte commerciali. Potenze mondiali sorsero grazie al controllo degli stretti di Gibilterra e di Malacca o dei canali di Panama e Suez. Erdogan lo sa bene. Il controllo della rotta balcanica gli ha garantito miliardi di euro da parte dell’UE, nonché l’immunità di cui gode.
Anche Erdogan può reprimere il dissenso interno senza che gli accada nulla. Può comprimere la libertà di espressione, può far arrestare giornalisti, politici, attivisti. Può mandare carri armati contro la popolazione curda. Può indignare perché sa che l’indignazione resterà un sentimento di facciata. Nessuno si azzarda a minacciare sanzioni. Le sanzioni colpiscono solo la Russia, l’Iran, in parte la Cina, da più di mezzo secolo Cuba e, ovviamente il Venezuela.
Contrariamente a quel che viene scritto su di me, non ho alcuna simpatia particolare per Maduro. Ho simpatia, nel senso etimologico del termine, per l’onestà intellettuale, anche quando ciò comporta ostacoli alla propria carriera politica.
La comunità internazionale si comporta in modo ipocrita. Colpisce i nemici del liberismo ma salvaguardia gli alleati anche quando questi compiono nefandezze. Lo “statista” al-Sisi è arrivato al potere attraverso un colpo di stato. È un fatto, non sono opinioni. Sotto al-Sisi i sostenitori dell’ex presidente Morsi – certamente osteggiato da milioni di egiziani ma pur sempre democraticamente eletto – sono stati massacrati.
Il 14 agosto 2013 centinaia di manifestanti pro-Morsi vennero trucidati nella piazza Rabi’a al- ‘Adawiyya a Il Cairo.. Human Rights Watch definì questo massacro “il peggior omicidio di massa della storia moderna dell’Egitto”. Ma al-Sisi è uno statista, un amico delle lobbies del petrolio occidentali, nonché un patito delle armi. E senza i patiti delle armi l’industria bellica mondiale dovrebbe chiudere bottega.
Secondo l’ONG Committee for Justice, dal golpe del 2013 ad oggi, 1058 persone hanno perso la vita nelle carceri egiziane. La maggior parte per non aver ricevuto cure adeguate o per le conseguenze della tortura. Sono i “Giulio Regeni” d’Egitto.
Mentre Macron consegnava ad al-Sisi la Grande Croce della Legion d’Onore, i magistrati italiani terminavano l’atto di chiusura indagini di Regeni. Nell’atto c’è scritto nero su bianco chi sono stati i responsabili della morte di Regeni. Come e quando l’hanno rapito.
Chi l’ha tradito riferendo ai servizi segreti egiziani informazioni false sul suo conto. Ci sono riportate le testimonianze di chi ha visto Regeni al comando di polizia di Dokki, a pochi metri dalla stazione della metro dove è stato prelevato dagli uomini della National Security Agency, i servizi segreti del Cairo.
Nell’atto i pm italiani hanno scritto come e quanto le autorità egiziane abbiano cercato di depistare le indagini. Dall’Egitto hanno provato a far credere che vi fosse un movente sessuale dietro la morte di Regeni; che fosse deceduto per un’emorragia cerebrale causata da un incidente automobilistico; che avesse in precedenza litigato con un altro cittadino straniero e che questa lite gli fosse stata fatale. Le autorità del Cairo hanno provato ad incolpare cinque criminali egiziani, fucilati per altre ragioni, dell’assassinio di Regeni.
Nell’atto di chiusura delle indagini i pm di Roma descrivono minuziosamente i segni sul corpo di Regeni poco prima della sua morte. Un super-testimone (la cui identità è chiaramente tenuta segreta) vide Regeni all’interno della stanza numero 13 nell’edificio “Lazoughly”, dove lavorano gli uomini dell’intelligence egiziana che hanno il compito di far parlare gli stranieri.
Il testimone vide Regeni semi-nudo, buttato per terra in preda ai deliri, ammanettato e con i segni della tortura su tutto il corpo. L’hanno ustionato, l’hanno scaraventato in terra, gli hanno bruciato la schiena, rotto le dita, le scapole, un femore. Il tutto all’interno di un edificio che appartiene al Ministero degli interni egiziano. Omicidio di Stato. Punto. Per le implicazioni dei servizi segreti del Cairo e soprattutto per gli indecenti tentativi di depistaggio da parte della autorità egiziane.
Un omicidio di Stato commesso da un regime che si è posto in modo ostile. E, come scrive Alberto Negri, non si vendono armi ad un regime ostile. Lo dissi mesi fa, intervistato da Lucia Annunziata, e lo sostengo ancor di più adesso dopo le conclusioni dell’inchiesta della procura di Roma.
Allora mi venne detto che le armi che non gli vendiamo noi le comprerebbero dalla Francia. Probabilmente è così, ma non si può morire di realpolitik come non si può morire di tortura. Perché la Politica è la più alta espressione dell’essere umano e non può ridursi a mero aziendalismo.
In fondo cos’è il welfare state? È l’investimento di denari (quindi l’uscita di risorse economiche) per garantire diritti sociali alla popolazione. Anche conoscere la verità su un connazionale assassinato è un diritto. Un diritto che, come tutti i diritti, ha un costo. Un costo che è anche un investimento. Un investimento nella costruzione di un’identità nazionale ancora troppo carente. Un investimento sulla credibilità delle nostre Istituzioni. Oltretutto un atteggiamento duro (duro non significa stupido, significa duro e basta) sarà un deterrente per il futuro.
Non si vendono armi ad un regime ostile. E va trovato il modo di rendere questa decisione una decisione europea. Perché Regeni era un cittadino europeo e perché, se l’UE fa orecchie da mercante di fronte ad una vicenda così spregevole, significa che non si affrancherà mai dagli interessi particolari o dalla sudditanza a Washington.
Con l’Egitto fanno tutti affari. Al Venezuela non vengono venduti nemmeno medicinali o tamponi in piena pandemia. Questo non mi va giù. Maduro ha i suoi limiti ed il Venezuela le sue contraddizioni. Ma qui tutto ruota intorno ai soldi, non ai diritti umani.
Se Maduro avesse sconfessato Chavez e avesse privatizzato l’industria petrolifera venezuelana (il Venezuela possiede la prima riserva al mondo di petrolio) si sarebbe trasformato in un istante da dittatore a politico ragionevole.
Lottare per l’onestà intellettuale non significa parteggiare per tizio o caio ma solo per la franchezza della Storia. Mi auguro con tutto il cuore che l’omicidio Regeni diventi questione di sicurezza europea. Tuttavia, nell’attesa che ciò avvenga, resta questione di credibilità nazionale.
Quelle parole, macabre nella loro veridicità, scritte dai magistrati italiani su questo “omicidio di Stato” consumatosi lungo il Nilo impongono al Governo italiano una reazione significativa. Non ci sono più scuse. Qui non è in gioco l’ENI o un commessa mancata. È in gioco l’anima di un Paese.
Leggi anche: 1. Armi, gas, diritti umani: il prezzo dell’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi / 2. Se l’Italia non si indigna per le agghiaccianti torture degli 007 egiziani su Giulio Regeni (di Giulio Cavalli)
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