Un reddito di sopravvivenza per salvare i lavoratori invisibili e precari dalla fame
Detesto le metafore (anzi, le retoriche) belliche. Ho provato un moto di insofferenza quando Macron, nel suo discorso alla Nazione, ha ripetuto per sei volte “nous sommes en guerre”: evocano un disciplinamento da caserma che non fa bene neanche alla salute. Ma se proprio vogliamo chiamare “guerra” questa del Coronavirus, allora dobbiamo dire che non abbiamo ben capito di che tipo di guerra si tratti. Credevamo che fosse una “guerra di posizione”, di quelle in cui basta scavare trincee e tagliare le linee di contatto del nemico per vincere. Invece si tratta di una “guerra di movimento”, dove il fronte è spesso doppio, e si sposta continuamente, dal biologico al sociale e viceversa. Così ci siamo in men che non si dica trovati presi in un attacco a tenaglia, in cui le misure prese per contrastare il contagio biologico rischiano di accentuare il pericolo del deperimento sociale.
Il “confinamento” di tutto il possibile per rendere minimi i contatti e le “interazioni sociali” finisce per aprire i confini sottili che separano una parte, non irrilevante, di noi dall’indigenza e dalla fame. Non è una metafora, questa della fame: è un dato di realtà già presente. C’è un pezzo d’Italia, non tanto piccolo, comunque non piccolo quanto si crederebbe, che non può chiudersi in casa per un periodo superiore a pochi giorni, per la semplice ragione non potrebbe, letteralmente, “mangiare”. E non perché impossibilitati a “fare la spesa”, ma perché privi del denaro necessario. Come dire? La coperta è corta: quanto più “chiudiamo tutto” per “coprirci” dal contagio, tanto più ci scopriamo sul fronte delle risorse elementari indispensabili a una parte consistente di noi per sopravvivere. E questo perché c’è chi, letteralmente, “se non lavora non mangia”.
Sono quelli che guadagnano alla giornata, che non hanno accumulato cuscinetti di grasso e la cui autonomia economica non supera la settimana, quelli che lavorano in nero, che abitano le praterie del sommerso, che svolgono lavori e lavoretti precari, anomali, irregolari. Sono “gli invisibili”. Per tutti questi chiudersi in casa significa perdere le fonti di ossigeno che gli permettevano di “vivere alla giornata”, appunto. Difficile dire quanti siano. Ma sono tanti. Soprattutto nel Meridione. E non solo.
L’Ispettorato del lavoro basandosi sui dati raccolti in 180.000 controlli, indicava in circa 250.000 gli “irregolari” nel 2017, ma si trattava di un’indagine campione. L’Istat, per lo stesso anno, ha stimato nell’ordine dei 3,7 milioni di lavoratori l’esercito del “sommerso” – o dell’”economia non osservata”, secondo l’espressione tecnica usata che comprende il cosiddetto “lavoro in nero” e le attività “illegali” – di cui due terzi costituiti da “dipendenti”. Contribuiscono a più del 12% del Pil, qualcosa come 211 miliardi di euro all’anno, parte dei quali distribuiti informalmente a una manodopera invisibile ai radar delle Agenzie pubbliche, dagli Uffici del lavoro all’Inps al collocamento e a qualsiasi “registro”.
Ma poi ci sono i lavoratori “in chiaro” e tuttavia privi di reti di tutela, anch’essi costretti a vivere “sull’osso” mangiando con quello che di volta in volta s’incassa: i freelance della gig economy, che se la “piattaforma” web non chiama sono out, rider, certo, ma anche baby sitter più o meno occasionali, idraulici, addetti alle pulizie, 700.000 gig workers insomma di cui almeno 150.000 si calcola vivano esclusivamente di quello. Ma anche quelli del “job on call”, gli “intermittenti” del lavoro a chiamata, che sono oltre 300.000 (320.000 secondo la rilevazione Istat dell’ultimo trimestre 2017). E il rizomatico mondo degli interstiziali, numerosi nel settore alberghiero e della ristorazione (colpiti in pieno dalle chiusure da coronavirus), oltre agli stagionali delle attività agricole.
È un’Italia di sotto che non può sottoscrivere il sacrosanto “#iostoincasa” senza firmare nel contempo la propria condanna all’inedia, a meno che l’Italia di sopra non incominci a “vederla” questa parte di propri compatrioti, e trovi, in fretta – molto in fretta – una soluzione. Si è parlato molto in questi giorni del rischio di “rivolte”, soprattutto per il Sud (e spesso con un retrogusto vagamente razzista, come se i meridionali fossero abbonati alle jacqueries). Si sono evocate immagini di supermercati presidiati dai carabinieri o dall’esercito per difenderli dai saccheggi. Sul fuoco ha soffiato soprattutto la stampa di destra, cui non par vero di proclamare che “Ora Conte ha paura”. Molto più opportunamente il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha ricordato che “se non ci fosse stato il reddito di cittadinanza, avremmo avuto già le rivolte in piazza” (La Stampa, 30 marzo), e non solo in Sicilia o in Calabria ma anche nel più ricco Settentrione, dove le politiche pubbliche dissennate degli ultimi anni hanno aperto sacche di precariato e di povertà ampie.
Le prime misure decise dal Governo, davvero con una velocità tanto straordinaria quanto determinata dalla percezione di un effettivo rischio, vanno nella giusta direzione: far affluire subito alla parte della popolazione che rischia di venire sommersa non solo o non tanto dalla malattia, ma dalle misure assunte per contenerla, le risorse essenziali. I 400 milioni della Protezione Civile e i 4 miliardi scongelati in anticipo dallo Stato – se non rallentate dalla burocrazia e dalla disorganizzazione – ci possono far guadagnare un po’ di tempo. Ma, con altrettanta rapidità, bisognerà ben pensare a una rete di copertura generalizzata per la parte più indigente della popolazione che le garantisca una sopravvivenza dignitosa. Bene i bonus o i pacchi alimentari dei sindaci, ma s’impone l’istituzione di un vero “reddito di sopravvivenza”, che non trasformi le possibili vittime del virus in reali vittime della fame.
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