Verso la fine del 1971 la Repubblica Italiana è alle prese con la ricorrenza laica che si celebra ogni sette anni, l’elezione del Capo dello Stato. Il più famoso e longevo degli attori di quell’epoca, Giulio Andretti, scrive nel taccuino che giace sempre in una delle sue tasche: “Ho visto Moro che dice di non essere ancora candidato. Il solo che dice : “Lo sono e lo voglio” è Fanfani, allora Presidente del Senato.. Il ritratto dei due “cavalli di razza” della Democrazia Cristiana alla vigilia dell’elezione al Quirinale è del 23 novembre 1971, a quindici giorni dal primo scrutinio. Quel che segue è una versione colta e raffinata della rappresentazione a cui stiamo per assistere oggi. Amintore Fanfani è l’uomo che ha fatto fuori la generazione dei “popolari”, la classe dirigente cattolica la cui massima espressione è Alcide De Gasperi. È giovane, preparatissimo, dotato di un’autostima da far paura, spavaldo. “Certo, sul piano personale, non era simpatico”, ammette molti anni dopo i fatti Ettore Bernabei, il suo “uomo di fiducia”.
Non era simpatico Fanfani, ma forse il suo più bruciante insuccesso, la bocciatura nella corsa al Colle, ha avuto anche altri motivi, l’insopportabilità dell’”io” in politica. Una direzione vietata che è stata in vigore per la prima parte della nostra vita repubblicana, la cosiddetta Prima Repubblica, sempre che si possa affermare con prove consistenti che ad essa ne sia seguita una Seconda o che, com’è possibile, quella attuale non sia semplicemente la sua coda. In questo finale di stagione l’ “Io” è ammesso senza limiti, si può berciare “Io” senza essere fischiati dalla platea.
Nel 1971 è diverso: superato l’esame dei gruppi parlamentari e dunque candidato ufficiale del partito di maggioranza relativa Fanfani trova nell’urna del primo scrutinio quaranta “franchi tiratori”. Alcuni di questi lo mettono in guardia e sulla scheda, invece del suo nome si legge un suggestivo “Nano maledetto, non sarai mai eletto!”. Una irrevocabile condanna dell’”Io” politico. Fanfani resiste da par suo ma all’undicesima votazione deve amaramente prendere atto che non ce la può fare ed è la volta di Giovanni Leone, eletto al ventitreesimo scrutinio, un’antivigilia di Natale, uno al quale l’”Io” non piace e, malgrado il suo vasto curriculum, non se la tira. L’elezione di Leone introduce una costante di queste occasioni: la maggioranza che si forma sul voto decide prima il nuovo governo e solo dopo il candidato al Quirinale.
Fallito Fanfani, rimane infatti Aldo Moro che, adesso sì, è candidato. La decisione però non è tanto sui nomi ma, come si diceva una volta, sulla “linea”: Moro sulla sinistra o Leone sul centrodestra? Il governo è un quadripartito Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Socialdemocratici e Repubblicani di Ugo La Malfa, un centrosinistra “classico” guidato da Emilio Colombo. In quei mesi però la destra missina sta rosicchiando voti alla Democrazia Cristiana e questo spinge la maggioranza del partito a mettere in pausa l’alleanza con i socialisti per virare verso i liberali di Malagodi, rassicurando così la fetta di elettorato che teme lo scivolamento a sinistra. Per questa operazione si preferisce Leone a Moro.
Curiosa, e fantastica la Democrazia Cristiana di quegli anni: all’assemblea dei gruppi la candidatura di Aldo Moro è sostenuta da un insospettabile, lo “sturziano” Mario Scelba: “Noi popolari-accusa l’ex Ministro dell’Interno rivolto alla maggioranza dorotea del partito-abbiamo saputo creare gli spazi, voi sapete solo conservarli”. Poi si vota e c’è chi giura di aver visto Leone piegare la scheda sulla quale ha scritto Fanfulla, personaggio notoriamente equidistante da lui e da Aldo Moro.
Durante il sequestro dell’uomo che gli fu rivale per un giorno, Leone, da Presidente della Repubblica, percorre in suo favore una strada senza sbocchi che lo porta pochi giorni dopo il ritrovamento di via Caetani alle dimissioni, atto finale di una tormentata storia presidenziale appesantita da polemiche, sospetti, accuse. Leone si dichiara infatti pronto alla grazia per un terrorista detenuto ma non per reati “di sangue”. Un estremo tentativo per salvare la vita al presidente della Democrazia Cristiana, un atto di ribellione al “no” del Fronte della fermezza. In questo caso Leone è, con Fanfani nuovamente Presidente del Senato e con Craxi, tra quanti sono decisi a fare qualcosa. Fanfani chiede a Andreotti, Presidente del Consiglio di un governo di solidarietà nazionale, di verificare se ci sia un terrorista “graziabile”. Su duecento casi esaminati nessuno è agibile, risponde Andreotti. Nelle stesse ore il giurista Giuliano Vassalli, senatore del partito di Craxi, informa Leone di aver trovato un detenuto “graziabile”, la brigatista Paola Besuschio, arrestata nel settembre del 1973 e condannata a quindici anni. Né l’apertura alla trattativa che Fanfani avrebbe proposto “proprio quel giorno”, né la grazia che Giovanni Leone avrebbe firmato in quelle ore servono: il 9 maggio la Renault rossa era parcheggiata a via Caetani. Ma era come se fosse stata piazzata davanti al Quirinale.