Ad agosto, nel mio paese maremmano, il ripetitore locale ha subito un guasto durato 48 ore, così un’intera comunità è rimasta isolata due giorni dai progressi tecnologici contemporanei. Non andavano neanche le telefonate verso i cellulari: sembravano i primissimi anni Novanta.
È stato un esperimento su piccola scala di quelle che sarebbero poi state le ore in cui Facebook si è trovata con i server impazziti, impedendo a milioni di persone di accedere ai social del gruppo e all’app di messaggistica più famosa del mondo.
La reazione generale a questo crash è stata un misto tra panico e stupore. Non è questo ahimè un discorso nuovo, la mia generazione è stata la prima a porsi il problema della tossicità dei social perché siamo stati proprio noi millennials a crearli.
Le generazioni più lontane (X e Boomers) demonizzano spesso i mezzi digitali: da un lato perché non li comprendono appieno, dall’altro perché si rendono conto che il dibattito sociale e lavorativo ha cambiato completamente struttura da quella che era loro familiare.
L’approccio più sveglio lo ha, come su tantissimi altri aspetti, proprio la GenZ, che è nata nell’era digitale e sa esattamente approcciare questo mezzo. La cura alla “dipendenza dal digitale” però non può essere demandata ai singoli. Dovremmo piuttosto ripensare a promuovere un’educazione al digitale, che possa avvicinarci al mezzo senza ansia e con consapevolezza (e rispetto), che ci faccia capire i confini di un mondo che sembra non averne…
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