Intervistato da Federico Fubini sul Corriere della Sera, il ministro Beppe Provenzano è tornato sulle linee guida del suo piano per il Mezzogiorno (già presentato nel febbraio scorso). Ovviamente, non mancano le buone intenzioni, dalla riforma della pubblica amministrazione a quella della giustizia, dal rilancio degli investimenti pubblici al superamento del “digital divide”. Ora però si aggiunge una novità: un pacchetto di sgravi fiscali per il Mezzogiorno che prevede una riduzione del costo del lavoro, ovvero un abbattimento del trenta per cento dei contributi previdenziali a carico delle aziende. Una misura di durata decennale che, oltre ad aumentare l’occupazione e a far emergere il lavoro nero, dovrebbe indurre le imprese italiane a delocalizzare i propri impianti nelle regioni meridionali anziché all’estero.
Conosco Provenzano. È un ministro preparato e competente, a cui certo non manca il coraggio delle idee. Mi permetto di osservare, tuttavia, che la fiscalità di vantaggio da lui proposta, più che una novità, pare figlia di quella vecchia logica dell’intervento straordinario che in passato non ha dato buona prova di sé. In un libro pubblicato nel 2003, Abolire il Mezzogiorno (Laterza), Gianfranco Viesti sosteneva giustamente che c’è “la necessità di eliminare lo stereotipo che consente di non guardare mai che cosa sta davvero succedendo nelle regioni del Sud e nelle Isole e nei tanti e diversi territori che le compongono, nel bene e nel male, e di spiegare sempre tutto, semplicemente, adducendo il motivo che il Mezzogiorno è il Mezzogiorno, cioè altro rispetto all’Italia”.
Rompendo un lungo e surreale silenzio, oggi il Mezzogiorno è tornato agli onori della cronaca grazie alla crisi di un grande polo industriale (Ilva di Taranto), a un crac bancario (Popolare di Bari), a bizzarre polemiche contro il presunto egoismo di Milano. Non c’è da rallegrarsene. Il meridionalismo migliore – quello di Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini, di Guido Dorso e Tommaso Fiore, per citare alcuni nomi – ha sempre saputo analizzare le ragioni profonde del suo ritardo e le responsabilità della sua “borghesia lazzarona”, che prosperava nelle pieghe del sottopotere. Cosa rimane oggi di quel meridionalismo? Nonostante i lodevoli sforzi di Provenzano, molto poco, solo qualche piagnisteo neoborbonico sulla rapacità del Nord, sui fallimenti del mercato e sulla “secessione dei ricchi”.
Al contrario, andrebbe ammesso senza ipocrisie che l’intervento pubblico nel Mezzogiorno si è trasformato da soluzione in problema. Mentre non si riescono a spendere le risorse europee, spesa nazionale e civismo latino-americano si sono convertiti in una macchina del consenso che ha oliato gruppi affaristici e consorterie partitiche, burocrazie amministrative e clan criminali. Clientelismo e assistenzialismo hanno così foraggiato una coalizione della rendita parassitaria e un “capitalismo politico” che spiazzano – come ha osservato Nicola Rossi – chi vuole operare correttamente sul mercato legale. Il Sud, quindi, va liberato da un sistema di incentivi che ha distorto profondamente la sua crescita economica e i processi di selezione delle classi dirigenti locali, e che tutto ciò che offre ai ceti più forti in convenienza lo toglie alle giovani generazioni in opportunità di vita.
In altre parole, il Sud deve poter contare su uno Stato impegnato nelle sue funzioni essenziali, e solo in esse: amministrare la giustizia, garantire la sicurezza dei cittadini, fornire servizi sanitari ed educativi decenti, infrastrutturare il territorio. Deve dotarsi, inoltre, di quelle capacità progettuali che sono indispensabili per utilizzare con profitto i finanziamenti europei nei campi dell’innovazione tecnologica e del risanamento urbano. A Napoli come a Bari e Palermo non mancano le energie imprenditoriali, sociali e intellettuali pronte a raccogliere questa sfida. Ma devono essere aiutate da Roma ad aiutarsi da sole. Ma non mediante sostegni al reddito e pensionamenti anticipati elargiti a fondo perduto in un mercato del lavoro stagnante.
Uno spreco enorme di risorse della collettività, destinato a rinfocolare quei sentimenti di stanchezza e sfiducia che sono dilagati dopo decenni di retorica meridionalista. Infatti, “il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali” (Antonio Gramsci, “Il grido del popolo”, aprile 1916).
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