Era il dicembre del 2019, Abdul Rahman aveva solo 20 anni e io per la prima volta incontravo un gruppo di talebani. Ormai andavo e venivo dall’Afghanistan per lavoro da quasi un decennio ma prima di allora non ero mai riuscito a vederli di persona. Lavoravo per il Washington Post e ci trovavamo nel distretto di Khogyani, nella provincia orientale di Nangarhar. Se oggi i talebani sono ovunque, allora era davvero raro parlare con loro, almeno per i giornalisti occidentali. L’incontro era stato organizzato dal quotidiano statunitense, in un momento in cui i negoziati di pace tra i talebani e gli Stati Uniti – da cui il governo di Kabul era stato escluso – erano in dirittura d’arrivo.
Un gruppo di combattenti accettò di incontrarci e ci consentì di passare un’intera giornata nel territorio da loro controllato e appena riconquistato al sedicente Stato Islamico. Ricordo ancora la paura durante gli spostamenti in territorio talebano, dove i droni armati statunitensi potevano colpire i convogli dei miliziani da un momento all’altro. Gli stessi talebani erano diffidenti. Prima di lasciarci incontrare il loro comandante in un lontano covo tra le montagne ci fecero visitare una scuola e una clinica, dove operavano dipendenti pubblici ancora pagati dal governo di Kabul. All’iniziale diffidenza, subentrò poi la curiosità.
La maggior parte dei combattenti erano giovanissimi, alcuni avevano parenti in Europa e non notavo grandi differenze con i soldati dell’esercito regolare. Erano sempre in movimento e si nascondevano dagli attacchi aerei. Poi tutto cambiò. La seconda volta che incontrai un gruppo di talebani, dopo la firma degli accordi con gli Usa voluti da Donald Trump, i miliziani vivevano pressoché alla luce del sole. D’altronde controllavano già quasi metà del Paese. La loro amministrazione ombra, che da sempre aveva contrastato il governo ufficiale, non temeva più di riunirsi in appositi uffici aperti al pubblico.
L’esercito regolare si limitava infatti a difendere le proprie postazioni e i droni colpivano le colonne talebane solo se queste attaccavano obiettivi governativi. La vita della popolazione invece, soprattutto nelle zone rurali, sembrava cambiare poco sotto l’uno o l’altro regime. Il pericolo maggiore risiedeva negli spostamenti tra una zona e l’altra controllata dai talebani o dal governo. Era la guerra a uccidere, mentre ora è la fame. Ai combattimenti si è sostituita la crisi economica, indotta dal congelamento internazionale dei fondi statali e alla paralisi delle banche, che hanno razionato i contanti a disposizione dei correntisti. E con l’inverno, la situazione peggiorerà.
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