La riforma costituzionale per l’attuazione del cosiddetto “premierato” (una proposta talmente assurda da non esistere in nessun’altra parte del mondo) appare a prima vista inaccettabile per il semplice fatto che rompe il bilanciamento dei poteri. In sostanza, si capisce subito che l’accentramento di questi nel presidente del Consiglio dei Ministri non ha più come elemento di equilibrio la previsione dei poteri del presidente della Repubblica e dello stesso Parlamento.
Infatti, il presidente del Consiglio eletto ha a sua disposizione, mediante l’attribuzione di un premio di maggioranza del 55 per cento dei seggi parlamentari alle liste a sé collegate, una sicura maggioranza parlamentare” e, qualora venisse meno la fiducia del Parlamento al Governo, fatto del tutto improbabile, il presidente della Repubblica deve conferire l’incarico di formare il nuovo governo allo stesso presidente del Consiglio eletto, oppure a un parlamentare della sua maggioranza. E, se neppure questa operazione riesce, è tenuto a sciogliere le Camere. Ricominciandosi così tutto daccapo.
Ma, oltre a questo dato agevolmente comprensibile, ce n’è un altro, nascosto, ma assolutamente devastante per la nostra democrazia: in realtà con questo sistema, si sposta tutto dal piano dell’elezione del potere legislativo a quello dell’elezione del potere esecutivo.
Praticamente si realizza il sogno di Matteo Renzi del cosiddetto “Sindaco d’Italia”. Come se l’amministrazione di un Comune possa paragonarsi al governo di una Nazione, con tutti i problemi di politica interna ed estera che ciò comporta.
Insomma, con questa riforma non solo, come appare a prima vista, si rompe l’equilibrio dei poteri, ma si incide profondamente proprio sulla “funzione legislativa”, imponendo ai parlamentari collegati al presidente del Consiglio dei Ministri eletto una strana sorta di “funzione amministrativa” o “di governo” che dir si voglia.
Costoro infatti, non sono più sciolti dal vincolo del mandato, e quindi non sono più tenuti ad agire nell’interesse di tutti i cittadini, come prescrive l’attuale articolo 67 della Costituzione, e come è proprio di chi esercita l’attività “legislativa”, ma sono tenuti ad attuare il programma più votato, tra i vari presentati agli elettori, pena lo scioglimento delle Camere. E, a questo punto, si capisce dove sta la magagna.
La “politica nazionale” non viene più decisa in Parlamento, ai sensi del vigente articolo 49 della Costituzione, con una dialettica tra maggioranza e opposizione, e, quindi, a seguito della valutazione degli interessi di tutti cittadini, ma è frutto di un battage pre-elettorale nel quale conta molto l’intervento di chi è in grado di finanziare un’incisiva propaganda elettorale.
La drammatica conseguenza è che, un programma deciso prima delle elezioni da una minoranza di cittadini, avendo ottenuto anche un solo voto in più di quello riportato da altri programmi, diventa magicamente un “programma di governo”, che addirittura assorbe in sé la “politica nazionale”.
Un programma, peraltro, da portare a termine entro cinque anni e che, come si è accennato, non deve subire variazioni, come se lo stato di fatto esistente al momento delle elezioni dovesse rimanere immutato per l’intero periodo della legislatura.
Un vero illogico pasticcio che, purtroppo, trasforma il nostro Stato comunità, che mira all’eguaglianza economica e sociale dei cittadini, in uno Stato chiaramente servitore del potere economico finanziario e per questo ispirato all’opposto principio della diseguaglianza economico-sociale.
È un fatto gravissimo. E si tenga presente che il Governo Meloni, con questa proposta di modifica costituzionale e con l’ azione di governo sinora svolta, ha già ampiamente dimostrato di dare maggior valore alla governabilità piuttosto che alla rappresentanza di tutti i cittadini. L’essersi incamminati su questa strada ha un solo punto d’arrivo: l’oligarchia, se non addirittura la dittatura.
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