Scusatemi, questa volta devo parlare di una cosa molto personale, e per me anche dolorosa: mia madre. Si chiamava Giovanna ed è morta esattamente un mese fa. Mia madre aveva un desiderio semplice e chiaro: voleva essere cremata. Da un mese, però, è chiusa in una bara, in una cella frigorifera, in un qualche limbo del complesso Prima porta, uno dei più importanti cimiteri di Roma, insieme a tante altre persone che hanno avuto la sfortuna di morire come lei, negli stessi giorni. Mia madre è dunque insepolta e non cremata: come sospesa, un corpo in attesa del nulla. Mia madre era una persona che amava la vita, ma come tanti di noi si preoccupava anche della morte: aveva lasciato volontà precise sulla sua sepoltura. Lo aveva fatto più volte negli anni, fin da giovane, e persino con una certa ironica e cruda esattezza: “Io – mi diceva ridendo – voglio essere incenerita, Luca, non voglio essere divorata dai vermi”.
Ho scoperto grazie all’incredibile odissea che sta vivendo (e con lei tutte le persone che le hanno voluto bene) che in questo nostro paese è molto difficile vivere, ma ancora più difficile è morire.
Questo non è un articolo di denuncia, non è una lamentazione, non vuole essere un atto di accusa. È semplicemente una testimonianza, resa nella speranza di evitare ad altri quello che é toccato a lei. Forse dobbiamo riflettere su alcune cose che evidentemente in questa nostra città sono diventate scontate: ad esempio il fatto che il comune di Roma mi chieda 936 euro di contributo per una cremazione, una tassa sulla morte che – come tutti – io ho saldato il giorno stesso in cui mia madre ci ha lasciato. Un “contributo” che quindi è – a seconda di come si interpreta questa definizione – un obolo a vuoto o una estorsione. Dovendo seguire l’iter di questa vicenda ho fatto qualche piccola scoperta: ad esempio che a gestire la cremazione di mia madre, come di tutti i cittadini di Roma, sia l’Ama, la stessa azienda che nella Capitale si occupa dello smaltimento dei rifiuti. Non voglio fare battute facili, sul fatto che l’omologazione del servizio aziendale si è adeguata allo standard di disservizio del ramo più importante dell’azienda, quello che rende nota nel mondo l’Ama come un clamoroso esempio di inefficienza.
Noto soltanto che si riserva ai corpi la stessa attenzione che abitualmente viene riservata ad un rifiuto: o nel primo, o nel secondo, ma forse in entrambi i casi c’è qualcosa che non può essere accettato. E poi c’è una routine, che è ancora peggio del disservizio:
nessuno ti chiama, nessuno ti informa, per quanto possa sembrare incedibile, non c’è – da parte di questa azienda – nessuna percezione della sua scandalosa inadempienza: non puoi chiamare nessuno, puoi soltanto inviare una Pec, e sperare che qualcuno prima o poi ti risponda. Evidentemente deve sembrare normale l’idea che corpi e rifiuti arrivino ad un punto di equivalenza, e possano sostare nel limbo di un cassonetto o di una cella frigorifera. Deve sembrare normale – a chi immeritatamente dirige questa azienda – l’idea che nessuna spiegazione sia dovuta.
Ho fatto due ricerche: uno studio dice, mi scuso per la brutalità, che il costo tecnico della cremazione a Roma è di 150 euro, mediamente un’ora di lavoro. Questo significa che il Comune, attraverso la sua municipalizzata (una azienda partecipata) si riconosce un generoso profitto del 600% per non svolgere il suo lavoro. In un primo momento la constatazione mi ha fatto indignare: adesso mi sembra grottesca, se non paradossale. Credo che neanche lo spaccio della droga abbia – di questi tempi – margini di profitto più alti che parcheggiare salme. Ho scoperto quindi che in una città di tre milioni e mezzo di abitanti, malgrado la generosità di questi profitti, l’Ama si è dotata di sole sei bocche da forno. Sarebbe come se dovendo sfamare un reggimento, il nostro esercito, in una delle sue caserme più grandi, invece di una adeguata cucina, si accontentasse di un fornello a gas da campeggio, di quelli con la capsula azzurra che usano i boyscout. Ho scoperto poi che il comune di Domicella, in provincia di Avellino, non Moira dalla Capitale, forse dotato di una azienda più seria, ha due bocche da fuoco, che gli consentono anche di accogliere salme di altri comuni, e che si accontenta di un “contributo” di 658 euro. Voi direte: ma allora, Luca, perché non portare la salma di Giovanna a Domicella?
Malgrado l’inefficienza che mettono nel loro lavoro, la stessa domanda devono esserla posta i dirigenti dell’Ama, e gli amici che evidentemente hanno nell’amministrazione capitolina. Per portare una salma fuori dal comune di Roma serve una piccola carta, l’inevitabile rito burocratico, un certificato di “nulla osta” al trasferimento fuori Comune. E provate a indovinare? Questo certificato, che in molti comuni del nord Italia viene fornito a vista, a Roma lo si riceve in circa 30 giorni: così se tu sei colto dalla speranza di fuggire, con il tuo caro, in un ultimo viaggio verso la libertà dalla burocrazia capitolina, la tentazione ti passa subito. Curiosamente il tempo di attesa del certificato è pari a quello di attesa della cremazione. Curioso, no?
A Roma invece funziona così: ci sono sei bocche, che lavorano per dieci ore di lavoro al giorno, e quindi massimo 60 salme cremate. Se qualcuno ha delle tentazioni di fuga, dunque, deve capirlo bene: si metta in fila e non si faccia venire strane idee. Adesso voglio aggiungere una ultima cosa, più personale. Da giorni, per via di questa angoscia, ho iniziato a sognare mia madre: un sogno ricorrente, quasi sempre identico, che finisce ogni volta nello stesso modo. So che qualcuno penserà che io sono matto, o ferito dal lutto, o suggestionato: ma conoscendo la tempra di mia madre, non escludo che ovunque si trovi stia cercando di fare in modo che suo figlio faccia qualcosa. Bene, io non posso fare nulla, se non raccontarvi questa storia. Se ho deciso di raccontare una vicenda così privata, e perché so che nella stessa condizione ci sono migliaia di persone decedute, e tutti i loro cari.
Ecco perché non ci sono scuse, oggi: non ci sono pandemie, stragi, guerre, a Roma. Non ci sono calamità bibliche, piuttosto l’ordinario scorrere della vita e della morte, coronato da questa incredibile, macabra e vergognosa vicenda di lucrosa e infima burocrazia mortuaria. Ho scritto che questo non vuole essere un pezzo di denuncia. Bene, ho mentito. Mi piacerebbe molto che il sindaco di questa città, che è una persona perbene, desse un segnale: mi pacerebbe che leggesse questo articolo, verificasse se è vero, e che in questo caso reagisse nell’unico modo possibile: licenziando i responsabili di questo scempio senza attendere un solo minuto.