Se avete tra i 40 e i 70 anni con buona probabilità siete alienati sul posto di lavoro. Se ne avete tra i 18 e i 39 con buona probabilità siete sfruttati sul posto di lavoro. Se avete più di 70 anni o giù di lì, e state ancora lavorando, con buona probabilità state ingolfando il mercato del lavoro e bloccando la creazione di nuovi posti.
In Italia c’è un enorme problema chiamato lavoro a cui nessuno ha mai posto, o voluto porre, rimedio. E che la politica ignora da sempre. Ha a che fare con una malsana cultura del lavoro, con il modello che da decenni applichiamo sul posto di lavoro, con un metodo e regole del lavoro che risalgono a un’era passata.
Mentre in vista della campagna elettorale nel nostro Paese impazza il dibattito sulla flat tax, sul blocco navale e altre robe impraticabili, nessuno ha pensato di dedicarsi anima e corpo a rivoluzionare il modello lavorativo che regola le nostre vite.
Eppure l’impiego non è solo ciò che più riguarda la nostra libertà e indipendenza personali; lavorare è anche l’attività a cui dedichiamo più ore in assoluto nel corso della nostra intera esistenza.
Per anni abbiamo ritenuto che il lavoro fosse centrale a tal punto da anteporlo a qualsiasi altra battaglia, elemento da cui è (anche) derivata l’importanza che hanno avuto i sindacati per decenni in Italia. Nulla di male, beninteso. Ma così è passata l’idea che fosse normale vivere per lavorare anziché lavorare per vivere.
Il problema di fondo è che oggi lavoriamo tutti troppo a lungo. Guadagniamo troppo poco (il nostro Paese è l’unico in Europa dove i salari sono gli stessi da oltre vent’anni). Abbiamo troppo poco tempo libero per l’ozio creativo e per i nostri cari.
Col risultato che, spesso, finiamo anche per lavorare di fretta e male. Senza apprendere nulla, senza acquisire sapere e ingegno, tanto a beneficio dell’impiegato quanto dell’azienda. È il frutto del neo-liberismo che privilegia un modello mordi e fuggi basato quasi solo sulla quantità e molto poco sulla qualità.
Difatti, ancora oggi, sembrano contare di più le ore che impieghiamo sul posto di lavoro anziché la produttività e l’obiettivo finale da raggiungere (fattore, quest’ultimo, poco chiaro tra i dipendenti, con una conseguente perdita di senso e rinnovata alienazione).
Dopo la pandemia è esploso il cosiddetto smart working: ma anch’esso si è rivelato un boomerang, a danno del lavoratore, perché è risultato essere più gravoso dell’impiego stesso sul posto di lavoro considerata la mole di ore straordinarie a cui gli impiegati venivano sottoposti con la scusa di essere comodi in pigiama a casa.
Si è fatta strada così, come accade ormai ciclicamente da anni, l’idea che il lavoratore medio di per sé sia uno sciagurato scansafatiche poco incline a svolgere mansioni faticose. E non sono mancate, come conseguenza diretta, critiche alle politiche assistenzialiste prima tra le quali il reddito di cittadinanza che, secondo i detrattori della misura simbolo dei 5S, sarebbe stato elemento scatenante di un’improvvisa e comune impossibilità nel trovare personale da impiegare regolarmente e del conseguente boom del lavoro nero.
Ora, con tutta la buona volontà: quale persona sana di mente può seriamente ritenere vero che un lavoratore preferisca percepire dallo Stato tra i 400 e i 600 euro al mese al posto di ricevere uno stipendio dignitoso con cui impostare una vita autonoma e stabile? La grande illusione sta nel credere che ci siano i furbetti del reddito anziché ammettere che il modello che lo alimenta è miseramente fallito. Lo hanno documentato bene Sara Giudice e Massimiliano Andreetta nella loro video-inchiesta Schiavi di fine stagione, che abbiamo pubblicato sul nostro sito questa settimana e che ha fatto discutere. Si sono finti lavoratori stagionali e, con l’utilizzo di una spy cam, hanno documentato la realtà a cui vanno incontro gli impiegati del settore, tra mancate tutele, stipendi da fame e persino abusi. Con orari di lavoro massacranti.
È quindi comprensibile che migliaia di italiani abbiano deciso di dire no a questo sistema marcio, che preferiscano fare altro anziché sottostare a queste regole di mercato che tutto fanno fuorché nobilitare l’uomo.
C’è un dato di cui nessun partito, politico o leader parla: esistono in Italia 14 milioni di poveri. Com’è ancora possibile guardare altrove? L’unico leader che ha affrontato il tema, proponendo la revisione di questo modello e la riduzione dell’orario di lavoro, non è un politico di professione. Chi e quando ne parlerà forse tornerà a fare politica sul serio.
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