“Si parla di sci con 600 morti al giorno. Non siamo un paese normale”. Ha detto così Andrea Crisanti qualche giorno fa e sebbene io sia sempre d’accordo con tutto quello che dice l’epidemiologo, non ero mai stata così tanto d’accordo con lui. Erano giorni che questo tira e molla sulla possibilità di andare a sciare mi evocava alcune immagini dell’estate appena trascorsa: proprietari di locali e discoteche che reclamavano aperture, avvisaglie evidenti di un disastro annunciato, la politica sottomessa.
Solo che quest’estate non c’erano 800 morti al giorno. Di andare a sciare si parla con le terapie intensive ancora affollate, mezzo paese ancora chiuso, 20mila nuovi contagi al giorno. E quindi mi sono azzardata a scrivere che chi smania per andarsi a fare la sciatina o per mangiare un piatto di spatzle in baita, in questo momento non ha capito niente. Non ha capito che la cazzata estiva di riafferrare la normalità con arroganza, l’abbiamo pagata e la stiamo pagando ancora oggi. Che la stanno pagando anche loro.
Ho scritto che questa gente così scollegata dalla realtà dovrebbe provare per due minuti la paura e l’apnea di chi vive sotto al casco col Covid e poi forse rivedrebbe le sue priorità. Da 24 ore le mie pagine Instagram e Facebook sono prese d’assalto dalla ferocia di maestri di sci, proprietari di impianti e hotel di montagna, guide, sciatori dilettanti e professionisti, montanari per scelta di vita e montanari della domenica. Una pagina Instagram da boomer gestita ovviamente da un coraggiosissimo anonimo che raccoglie 30mila appassionati di sci ha postato il mio commento scrivendo: “Cosa le auguriamo? Tra l’altro ha un cognome (Lucarelli) che si addice a tante di quelle rime che finiscono con iselli…”.
Dopo pochi minuti, sono arrivati centinaia di commenti insultanti o di semplice dileggio, come quello delle due campionesse di sci Sofia Goggia e Federica Brignone, le quali anziché disapprovare il livello della discussione (Lucarelli/Piselli) e inorridire di fronte al livello dei commenti, mi hanno derisa a loro volta. Bulle tra i bulli, con i like di approvazione di tutta la caserma al completo, ben allineate con il linguaggio sessista e il cameratismo violento del web. Campionesse solo in pista, e ben lontane dall’esserlo anche fuori come, per esempio, una Federica Pellegrini che questo linguaggio social nei confronti delle donne l’ha sempre condannato (e subito).
E poi maestri di sci che lavorano con i bambini che mi hanno augurato di morire, di finire con la faccia spaccata da uno scarpone, sciatori che mi hanno scritto che sono una lurida troia, che mi verranno a cercare, che mi devo ammazzare. Donne, tantissime donne, che hanno approvato gli insulti e ne hanno aggiunti di nuovi.
Poi c’è chi ha spostato il tema sull’economia, ricordando che anche nel mondo dello sci c’è chi deve lavorare, c’è crisi, “testa di cazzo, da mangiare ce lo dai tu” e così via, come se chi è proprietario di palestre, di impianti sportivi, di negozi di abbigliamento, ristoranti, bar, discoteche, teatri, scuole di danza, educatori, agenti di viaggio e dipendenti annessi (gusto per fare esempi a caso) non vivessero lo stesso problema e senza sconti, da marzo ad oggi.
Come se gli unici penalizzati in questa epidemia fossero loro, gli sciatori, che comunque fino all’8 marzo 2020, hanno continuato imperterriti ad affollare piste, hotel, seggiovie, contribuendo al contagio e alla lista dei morti pure quando ormai era evidente cosa stesse succedendo. Come tanti altri, certo, ma quelle immagini degli sciatori in fila, ammassati, sulle montagne sopra Bergamo alla vigilia del lockdown, a marzo, mentre Bergamo e la Val Seriana erano già lazzaretti resteranno impresse nella memoria di tutti.
Inoltre, va detto, molti albergatori, guide ed altre persone che hanno o fanno attività in montagna, quest’estate hanno lavorato. Cosa che per esempio non è successa a chi ha alberghi e attività turistiche nelle grandi città come Roma, Firenze, Milano, Bologna. Gente – quest’ultima- che non lavora neppure adesso, grazie alla follia estiva che abbiamo creduto di poterci permettere. Poi certo, resta una domanda: chi pretende di lavorare oggi sulla neve o di andarsi a divertire oggi sulla neve urlando, strepitando, rivendicando diritti, pensa che tre settimane di fatturato alle stelle pagate con il riacutizzarsi dell’epidemia e con altri lockdown rigidi, che imporrano chiusure a tutti e a tutto, piste da sci comprese, possano essere un buon affare?
Credono davvero, questi raffinati epidemiologi, imprenditori ed economisti, che un mese di impianti affollati e di guadagni facili ma brevi, per poi risprofondare nell’incubo delle terapie intensive piene, sia un grande affare? Dovrebbero chiedere agli imprenditori nel mondo delle discoteche o della ristorazione se quest’estate è stata un affare per TUTTO il settore o solo per quelle poche decine, forse centinaia, di imprenditori che hanno fatto gli arraffa-tutto fregandosene di chi poi avrebbe dovuto lavorare quest’inverno e si è ritrovato con la saracinesca abbassata in autunno.
E inoltre, sarebbe il caso che un settore in cui per giunta è ampiamente diffuso il nero (ho chiesto a numerosi maestri di sci di raccontarmi i guadagni sulle lezioni private e non e le tasse pagate negli anni precedenti, per capire l’attuale situazione economica e i mancati guadagni, ma sono spariti nel nulla), comprendesse che l’arroganza con cui sta pestando i piedi negli scarponi, è malvista anche da altre categorie di lavoratori ben più vessate, che sono ferme da febbraio, che riprenderanno a lavorare per ultime, se sopravvivranno (le agenzie di viaggi, per esempio). E sì, certo che avete diritto ad aiuti e sussidi, come tutti, ma non all’arroganza delle pretese.
Riguardo gli insulti e tutto il resto, resta solo l’amarezza di sapere che questo paese è oggi diviso a metà: c’è chi piange i morti e chi piange perché la seggiovia è ferma e aveva voglia di farsi il weekendino con gli amici. C’è chi legittimamente è in pena perché ha l’hotel vuoto e chiede sussidi, e chi ha l’hotel vuoto e chiede di fottercene tutti dell’epidemia perché, come un invasato mi ha scritto, “noi viviamo per sciare”.
Per chiudere, vorrei ricordare alle due campionesse Sofia Goggia e Federica Brignone che si sono messe a partecipare alla shitstorm di migliaia di uomini contro una donna, due cosette: la prima è che sono arruolate una nella finanza e una nei carabinieri. A entrambe lo stipendio lo paghiamo noi, quindi dubito empatizzino con le partite iva degli sci. Alla Goggia ricordo anche che è bergamasca, per cui la inviterei a pensare con questo ardore alle file dei camion dell’esercito anziché a quelle con gli skipass. E a tutte e due, per finire, che l’attività agonistica finisce, quel che conta, alla fine della corsa, è che donne si è diventate. E su quest’ultimo fronte, da quel che vedo, siete ancora allo spazzaneve.
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