In un periodo storico dove ogni minuto perso verso una riconversione ecologica delle attività produttive è un minuto in meno per tentare di assicurare un futuro (un futuro di salvezza, un futuro dignitoso) ai nostri figli e più realisticamente al nostro stesso pianeta, diventa fondamentale conciliare l’attenzione all’ambiente con la solidità economica e reputazionale delle imprese.
L’essere sostenibile deve diventare conveniente (anche) da un punto di vista economico se si vuole accelerare con decisione verso un cambio di mentalità -da parte di chi fa impresa- rispetto alla tutela ambientale. Il concetto di “società benefit” nasce per questo: predisporre una misurazione delle performance ambientali e sociali delle aziende, aiutando ad aggiungere fra gli obiettivi imprescindibili di ogni impresa -accanto al profitto- l’etica, la sostenibilità ed il benessere collettivo.
L’Italia è stato il primo paese al mondo a formalizzare il concetto di società benefit già nel 2015 inserendolo in legge di stabilità, ed oggi centinaia di aziende sono diventate società benefit. Essere una società benefit non è soltanto una scelta di coscienza, ma può (e deve sempre più) diventare un metodo possibile per misurare le performance aziendali e ridurre i costi, confrontarsi con gli stakeholders in modo fruttuoso, ed avere un ritorno di immagine forte che si traduce in un rafforzamento del marchio e dunque nella concreta possibilità di attrarre talenti e investitori: in definitiva dunque avere un ritorno economico positivo.
Negli ultimissimi anni, pandemia Covid e guerra in Ucraina hanno messo definitivamente in luce una crisi planetaria senza precedenti, evidenziato un’inaccettabile ulteriore concentrazione della ricchezza (e conseguente allargamento della povertà), ed una rapida crescita del degrado ambientale e climatico ipocritamete giustificato con l’emergenza. In questo marasma sarebbe stato utilissimo avere non già generici auspici affinché le aziende vogliano investire sulla sostenibilità, ma una serie di regole semplici che vadano verso una standardizzazione condivisa del concetto di società benefit e degli obblighi minimi da rispettare in senso ambientale e sociale per qualunque impresa. Fortunatamente esistono delle soluzioni: una di queste si trova nell’articolo 25 della direttiva dell’Unione Europea relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità (Corporate Sustainability Due Diligence Directive, CSDDD) indica l’obbligo per gli amministratori delle imprese in Europa con più di 250 dipendenti di considerare le questioni legate alla sostenibilità, con una visione a breve, medio e lungo termine.
È un articolo importante poiché risponde a uno dei requisiti chiave che il Parlamento europeo nella sua specifica iniziale aveva previsto per questa direttiva alla Commissione. Purtroppo lobby sempre attive e diffusi istinti reazionari (oggi incredibilmente tornati di moda nonostante l’evidente necessità di voltare pagina in fretta riguardo la tutela ambientale e sociale), stanno tentando di sterilizzare questo articolo e modificarlo in commissione Iuri. Nonostante una petizione in merito abbia raccolto 475.000 firme in tutta Europa, e nonostante degli 855 individui che hanno risposto alla consultazione sul governo societario sostenibile, ben l’89% si sia espresso a favore della trasformazione in società benefit delle grandi imprese europee, oggi il Parlamento rischia di vanificare una scelta di civiltà e di tutela che a noi appare irrinunciabile.
La battaglia che condurremo in PE e rispetto alla quale invito tutti i parlamentari europei eletti in Italia a non arretrare di un millimetro, è quella di confermare l’articolo 25 e lavorare senza sosta ad una comunicazione efficace rispetto alla bontà del concetto di società benefit e alla necessità che ogni impresa, in ogni settore, da oggi ponga la sostenibilità ambientale e sociale quale propria stella polare, esattamente come la crescita ed il profitto.